La campana che visse 3 volte
La Campana che visse 3 volte
Sembra il titolo di un film, è invece una storia vera, che è già stata trattata in passato da giornali e televisioni. La storia di una campana trovata su una spiaggia del Portogallo e che, secondo il suo scopritore, l’ingegner Roberto Mazzara, sarebbe addirittura quella della Santa Maria. Insomma, la campana di Cristoforo Colombo! Che ora si trova negli Stati Uniti. Quel che è certo è che Mazzara ha dedicato una vita a questo ritrovamento, spulciando quintali di documenti, parlando con molte persone e passando attraverso un lungo processo, fino ai giorno nostri. Noi abbiamo cercato di mettere assieme i tasselli di questo complicata vicenda della quale, come leggerete, non è stata ancora scritta la parola fine
di Carlo Ravenna
Una campana, quella che vedere in queste foto, fragile e corrosa, che ha vissuto tre volte. Nel corso della sua seconda vita, la più lunga, oltre quattrocento anni passati sotto il livello del mare, si è aperta su di essa una grossa crepa che assomiglia a una bocca mal formata che ha fagocitato, secolo dopo secolo, bordate d’acqua oceanica e folate di sabbia, ma anche un folto intreccio di misteri che si perdono nella notte dei tempi. Quasi un alone di leggenda avvolge infatti questo prezioso reperto su cui lo scopritore, un subacqueo professionista con il pallino dell’archeologia, ha cercato di far luce dopo averla dissepolta dal fondale, nel 1994, anno che di fatto ne sancisce l’inizio della terza vita. Su di essa ha concentrato sforzi, passione, denaro. Con uno scopo: dimostrare che quella campana era, nella sua prima vita, quella che il 12 ottobre 1492 segnalò la scoperta del nuovo mondo.
E’ quindi la Campana di Colombo? A esserne certo è innanzitutto lui, Roberto Mazzara, colui che affondò le mani nelle sabbie del mare portoghese e iniziò a scavare riportando a galla quella che, a suo dire, assomigliava a una specie di pentola di uno strano colore grigio chiaro. Facciamo ora un passo indietro per sapere qualcosa di più di Mazzara.
Nato a Castronno, un piccolo paesino delle Prealpi varesine, Roberto fin dall’infanzia adora volare con l’immaginazione scavalcando quelle lame imbiancate di roccia che si arrampicano vero il cielo, per poi planare in obliquo fino a sorvolare le sterminate distese azzurre che si perdono all’orizzonte, sospinto da un desiderio irrefrenabile di affondare e guardare ancora più giù, a caccia di segreti sotto le onde.
Il bambino che sogna l’oceano e fantastica sulle gesta dell’uomo che ne sfida le dure leggi, resta incollato al televisore mentre trasmettono i documentari della serie “L’uomo e il mare”, di Jaques Cousteau. Ed è così che inizia a viaggiare con la mente e con il cuore nelle buie profondità in cui si nascondono da tempi immemorabili relitti e tesori perduti. Forse ancora non sapeva che qualcuno dei suoi voli pindarici un giorno, da adulto, sarebbe diventato realtà.
Passano gli anni e Mazzara ,parallelamente alla subacquea, che gradualmente diventa una professione, si laurea in ingegneria idrodinamica. Grazie alle sue capacità e alle conoscenze tecniche, si cimenta nella costruzione di diversi robot subacquei (Rov), ovvero Remore Operate Vehicle, veicoli a controllo remoto. Le prime esplorazioni si svolgono nel Lago Maggiore, dove localizza i resti del piroscafo Milano e, successivamente, della torpediniera Locusta. Perfezionando i suoi apparecchi, si impegna in lavori di vario genere, sempre legati all’acqua, con una particolare attenzione all’aspetto archeologico, la sua grande passione.
Una campana e due relitti con lo stesso nome
Mazzara nell’ambito della sua passione/professione, a un certo punto iniziò a interessarsi di due galeoni spagnoli che, di ritorno dalle Americhe, pare che affondarono lungo le coste portoghesi nell’anno 1555. Si chiamavano entrambi San Salvador e facevano parte di una flotta salpata da San Juan di Porto Rico, che aveva il compito di riportare in Spagna, per ordine del Re Carlo V, un carico prezioso d’oro e argento giunto a Porto Rico qualche mese prima su altre imbarcazioni. Solo una nave, la Santa Catalina, giunse a Lisbona, mentre i due galeoni San Salvador andarono a picco: il San Salvador I nei dintorni di Buarcos (oggi sobborgo di Figueira da Foz), mentre l’altra nave, il San Salvador II, in Algarve, presso il paese di Carrapateira.
Mazzara, uomo dal grande spirito d’avventura, mise in piedi due spedizioni, una per relitto. Si trattava di organizzare questi due viaggi con un grande punto interrogativo perché la localizzazione dei galeoni andava sostanzialmente fatta in loco; non c’era certo un diving che lo avrebbe portato comodamente sul sito. Bisognava affrontare un viaggio lungo e anche abbastanza dispendioso per le tasche di un giovanotto di belle speranze: dentro a un vettura stracarica sino all’inverosimile e con un gommone al rimorchio. Ma la passione e la voglia di sognare a volte vince su tutto, almeno nelle intenzioni, così come il desiderio della scoperta: assieme a due compagni che accettarono di appoggiare quell’ambizioso progetto, partì per Carrapateira, fino a raggiungere la costa dove sorge il piccolo paese, contrassegnata da lunghe spiagge e da un’appuntita scogliera, fatta di alte guglie simili a quelle di una cattedrale gotica, su cui si abbattono ritmicamente le grandi onde oceaniche.
Questa spedizione si concluse però in un nulla di fatto, innanzitutto perché i tre vennero a conoscenza solo giunti in loco che vigeva da pochi mesi un divieto d’immersione, a seguito della scoperta di alcuni cannoni, proprio nell’area sommersa in cui Mazzara e gli altri membri pensavano che fosse affondato il San Salvador. Ma non solo: organizzare immersioni a ridosso della scogliera si rivelò estremamente complicato perché durante alcuni tentativi di avvicinamento al sito presero atto che l’onda lunga era impressionante e frangeva sulle rocce con una potenza inaudita.
Successivamente, il nostro cercatore di relitti fece un sopralluogo verso Figueira de Foz alla ricerca dell’altro San Salvador. Si buttò in questa nuova avventura anche stavolta senza lasciare nulla al caso: leggendo carte, documentandosi e organizzandosi al meglio, ma sempre con la consapevolezza di dover lottare contro qualcosa di simile all’ignoto, certamente segnalato ma nascosto nel blu, tra i capricci dell’immenso mare oceanico. Correva l’anno 1993.
Mazzara decise, dopo la visita in questo angolo marino portoghese, che a Figuieira de Foz valeva la pena fermarsi più tempo rispetto a Carrapateira, mettere in piedi un commercio di materiale subacqueo e organizzare dei corsi d’immersione, unendo quindi l’utile al dilettevole. Prese contatti per lo scopo e continuò naturalmente le sue ricerche storiche che, come capiremo tra poco, lo portarono finalmente sul relitto, nel 1994. In particolare, non gli sfuggì un passaggio di una lettera scritta da un certo Pedro de Galarza, trovata spulciando tra carte e libri antichi nella biblioteca del paese: in quello scritto c’era menzione del naufragio del San Salvador, avvenuto di fronte a una spiaggia in una località chiamata Casal de Marin, dove sorgeva un vecchio monastero, oggi ancora esistente ma ridotto a rudere. La lettera spiegava inoltre che tale Pedro de Galarza aveva ricevuto l’incarico dal re di Spagna di recuperare il materiale scampato al naufragio, lungo la spiaggia. A Playa del Lorical, oggi nota come “Osso da Baleia”, che significa in portoghese “Osso di Balena”.
Il cerchio si stava finalmente chiudendo. “Chi la dura la vince”, recita un vecchio adagio popolare e Mazzara con la sua determinazione e le sue ricerche certosine era finalmente in grado di stringere il campo di ricerca su una ventina di chilometri di spiaggia, che iniziò a setacciare con un metal-detector. La prima scoperta che fece, individuata grazie al suono dello strumento, fu una moneta piuttosto grande, da 8 reales, bellissima, d’argento ma resa nera dal lavorio del mare, in cui si riconosceva lo scudo del Regno di Spagna. C’era la scritta Carolus (Carlo V), colui che sedeva sul trono all’epoca del naufragio del San Salvador. Ne scoprì altre. Erano monete uniche, in grado di fornire importantissime informazioni sulle vicende di quell’epoca. Questo sulla terraferma.
In mare invece, particolarmente avventurose furono le ricerche svolte con un gommone acquistato in Portogallo, effettuando navigazioni da cardiopalma, dovuta sia alla distanza del sito dal porto di Figueira de Foz, sia alla inesauribile e spumeggiante energia dei marosi. Ma grazie ai segnali di uno strumento di dotazione di bordo di cui Mazzara si era munito, il magnetometro, che rileva le oscillazioni magnetiche dovute alla presenza di metalli ferrosi o magnetici, riuscì a individuare il relitto. Era situato in un’area di ricerca molto più vicina alla riva di quanto avesse fatto nelle precedenti ricognizioni, essendosi potuto avvicinare di più alla terraferma grazie alle migliori condizioni del mare. Una volta ancorato, Mazzara raggiunse nell’acqua poco profonda, emergenti dalla sabbia, le fiancate scure del meraviglioso galeone San Salvador, una nave imponente che in vita pesava quasi 800 tonnellate. Erano di un legno molto antico, reso assai tenero al tatto dall’azione disgregante del mare.
Era nel posto giusto. In quell’angolino azzurro per anni agognato, battuto dai candidi accavallamenti di spuma sospinti dai venti, avrebbe notato anche una porzione metallica di un reperto che spuntava dal sedimento: la campana.
La scoperta…
A prima vista quell’oggetto, ormai appartenente al mare, gli sembrava una sorta di vecchia pentola. Dalla sabbia emergeva il bordo inferiore e dopo averla diseppellita, fu subito chiaro che era una campana navale, ben riconoscibile grazie a una lamina piatta che serve a fissarla, con un foro (un po’ deformato). Vale la pena ricordare che, mentre nelle campane terrestri il suono avviene dondolando, con il batacchio che urta contro il bordo interno, in quelle navali, essendo fisse, il suono avviene facendo oscillare il batacchio tramite una cordicella a esso fissata. Insomma, Mazzara aveva scoperto il relitto e anche quella campana, che aveva tutta l’aria di essere antica. Poteva davvero ritenersi soddisfatto.
L’idea a questo punto era di denunciare il fatto alle autorità competenti, accontentandosi della ricompensa economica del diritto della scoperta, ma si scontrò con i suoi collaboratori, evidentemente più propensi al saccheggio della nave che a un iter che rispettasse le regole dei ritrovamenti storici in mare. Sostanzialmente erano comunque poco interessati alla campana, fortemente corrosa e con un’evidente spaccatura. I rapporti con il resto del gruppo si deteriorarono immediatamente e Mazzara decise di lasciare il Portogallo, portandosi via l’oggetto.
La terza vita della campana
Dall’acqua all’aria. Di nuovo, dopo secoli in fondo al mare. Indebolita e parzialmente frantumata, questa campana indubbiamente affascina, forse per l’alone di mistero che traspare semplicemente guardandola, forse per quelle tonalità “calde” che virano dal grigio al verdastro e che sanno di mare vero. Un mare immenso, senza confini, che all’epoca portava il nome di Grande Mare Oceano.
Già, il mistero. Mazzara inizia subito a farsi delle domande. Cosa ci faceva una campana di queste ridotte dimensioni (altezza 260 mm, diametro 252 mm), dalla forma sostanzialmente semplice, su un galeone prestigioso come il San Salvador? Inoltre… sembrava più antica per quella nave e ancora… una campana che sicuramente era stata fabbricata in Europa, presumibilmente poteva prendere la via delle Americhe, ma addirittura tornare poi da lì, su un carico costituito di beni preziosi realizzati in oro, argento, monete, smeraldi, sembrava davvero poco plausibile.
L’idea che potesse avere un valore anch’essa, al di là delle sue fogge essenziali, funse da volano per il cercatore per iniziare delle specifiche indagini d’archivio. Il primo documento venne trovato a Lisbona nell’archivio della “Torre do Tombo”, che facendo riferimento a Colombo chiariva che sul San Salvador viaggiavano molti oggetti legati alla nave del navigatore più famoso della storia.
Certamente Cristoforo Colombo viaggiò su tante navi, ma la più famosa era la Santa Maria, quella che ci viene raccontata da bambini sui banchi di scuola. Due successive analisi, la prima presso l’Arqueolise di Nizza, un ente che restaura reperti archeologici restituiti dal mare, la seconda a Bologna, all’attenzione di un docente universitario di archeo-metallurgia, confermarono che si trattava di un manufatto molto antico, il cui metallo era stato più di quattrocento o cinquecento anni sommerso nell’acqua marina.
Nel 1998 Mazzara tornò in Portogallo per informare il governo del ritrovamento del San Salvador e della campana che, probabilmente, riteneva potesse essere stata della Santa Maria di Colombo, ma non venne preso in considerazione. Fu anche avvisato il direttore responsabile dello Stass, servizio di archeologia subacquea del Portogallo, ma costui si dimostrò più interessato al relitto che alla campana.
Lo scopo di Mazzara era di ottenere un giusto tributo economico e un ritorno d’immagine per un ritrovamento importante, quello del San Salvador, sotto il profilo numismatico, storico e archeologico. Non ottenne le ricompense sperate, tuttavia venne realizzato in Italia un significativo servizio sulla rivista Mondo Sommerso, con l’immagine della campana in copertina, e un breve documentario registrato dalla Rai.
Mazzara nella sua storia di scopritore ha un merito che gli va riconosciuto: ha sempre cercato di informare chi di dovere dei suoi ritrovamenti. Ciò denota professionalità e correttezza. Eppure, non ebbe i riscontri sperati pure quando, successivamente, decise di donare la campana alla Casa Reale Spagnola, con lo scopo, innanzitutto, di vederla esposta in un museo e avere un tornaconto personale che avrebbe dato un senso al suo impegno profuso per un progetto su cui si era buttato anima e corpo, che lo aveva e lo avrebbe impegnato per anni e anni.
Nel frattempo la campana era in Italia, nella sua abitazione, in uno speciale contenitore progettato e costruito dall’ingegnere: era ripieno di argon, che avrebbe impedito all’ossigeno di aggredire le già precarie condizioni del bronzo.
A quel punto, restava solo una strada: la messa in vendita del reperto, per chiudere un capitolo lungo, emozionante, affascinante, ma irto di difficoltà e, soprattutto, costoso. E comunque occorreva portare avanti ulteriori ricerche storiche e scientifiche che avrebbero dovuto certificare che quella campana fosse realmente quella posizionata sulla famosa Santa Maria.
Riscontri scientifici e antichi documenti per arrivare alla verità
Dal punto di vista scientifico, venne realizzata un’accurata analisi del metallo della campana a Saragozza, presso l’Istituto Tecnologico d’Aragona, e un prelevamento (ufficiale, con la testimonianza di un agente di polizia) di campioni di sabbia sulla spiaggia del ritrovamento che l’Università di Saragozza, facoltà di mineralogia, aveva deciso per eseguire per poter fare indagini comparative tra la sabbia della Playa del Lorical e quella incrostata nell’ossido della campana. Ma altri riscontri sarebbero arrivati anche delle carte, dimenticate per secoli negli archivi. La partita si sarebbe giocata anche da lì.
Un collaboratore incaricato da Mazzara, trovò due scritti importanti. Nel primo, risultava che presso la fortezza di San Juan di Porto Rico, nello stesso periodo in cui venne immagazzinato il tesoro che poi sarebbe stato imbarcato sulla San Salvador, era stata consegnata anche una campana, pagata profumatamente: 32 pesos, orientativamente come un anno di stipendio di un marinaio. Ciò stava a significare che la campana aveva un notevole valore.
Nel secondo documento vengono citate le vicende relative al nipote di Luigi Colombo, nipote primogenito oberato di debiti di Cristoforo Colombo, il quale incaricò una persona di fiducia affinché gli spedisse dall’America gli oggetti del nonno. Non esiste a onor del vero una lista ufficiale degli oggetti richiesti da Colombo, ma è quantomeno curiosa la coincidenza che la campana risultasse imballata e stoccata nello stesso luogo (e nello stesso periodo) dove sarebbero stati prelevati gli altri oggetti da imbarcare.
Un terzo documento, il più importante, era riportato in un manoscritto del 1556 acquistato a Firenze da Mazzara, che riguardava una lista di imbarcazioni giunte a destinazione o naufragate in quell’anno. E tra quelle navi era descritta la San Salvador. Testualmente, il documento relativo al paragrafo del galeone in questione, diceva (tradotto dal castigliano antico) che “nel registro della nave nominata San Salvador”… “che veniva con il comandante Guilherm de Lugo”… “egli stesso disse che naufragò a Buarcos”… “con molto oro, molto argento e la campana del villaggio di Navidad”
Il termine signo, che compare nel documento tradotto di cui sopra, definisce una campana di piccole dimensioni, mentre Navidad è il nome di un piccolo fortino fatto costruire da Colombo sull’Isola di Spagnola, utilizzando il legname recuperato dalla Santa Maria che si arenò su un banco di sabbia la notte di Natale del 1492. Secondo Mazzara queste prove sono più che sufficienti a dimostrare l’appartenenza del reperto alla spedizione di Cristoforo Colombo che portò, il 12 ottobre 1492, alla scoperta del Nuovo Mondo.
La campana venne proposta a una casa d’asta, ma tre giorni prima dell’incanto, che si sarebbe dovuta tenere a Madrid il 17 febbraio 2002, alcuni poliziotti in borghese sequestrano il reperto e comunicano a Mazzara una denuncia per furto da parte dello Stato portoghese. Iniziò un processo complicato e costoso, fortunatamente risolto favorevolmente con il riconoscimento dei diritti dello scopritore. Il quale peraltro sembra ora in procinto di vendere il prezioso cimelio.
L’ingegner Roberto Mazzara, subacqueo professionista, ma anche e soprattutto romantico cercatore dell’epoca moderna di tesori e manufatti, in quest’epoca in cui tutto sembra appiattito, standardizzato, addomesticato, sogna che dopo l’agognata vendita la sua campana riposi per sempre in un museo. Ciò sancirebbe tutti i suoi sforzi, le ricerche storiche e scientifiche a cui ha dedicato una bella fetta di vita.
Per chi volesse approfondire l’argomento, è stato pubblicato un libro (Edizioni White Star), ricco di informazioni e illustrazioni, dal titolo: Cristoforo Colombo e il mistero della campana della Santa Maria. I testi sono di Consuelo Varela e la parte finale del volume, scritta da Roberto Mazzara, è dedicata alla campana.
Mazzara racconta dove si trova ora la campana
Ingegner Mazzara, lei è anche un affermato subacqueo professionista che ha lavorato con grande passione nell’ambito dell’archeologia. Ci racconta qualcosa sull’affondamento del galeone San Salvador e su questa famosa campana?
«Effettivamente ho lavorato con grande passione “tuffandomi” nella storia, a volte da solo, a volte con eminenti personalità dell’archeologia subacquea, e ho dedicato la mia vita alla ricerca. Ritrovai la campana scandagliando la sabbia costiera, durante un periodo in cui usavo un metal detector sulla riva, entro un tratto di mare nel quale ero venuto a conoscenza dell’affondamento di quel relitto. Sapevo bene che si trattava di viaggi all’epoca estremamente rischiosi, avventure memorabili degli uomini di allora a tu per tu con il mare e la sua potenza. Le navi erano quasi sempre cariche all’inverosimile, spesso contenevano grandi quantità di beni preziosi. A bordo i problemi che nascevano erano non solo all’ordine del giorno, ma anche assai complicati da risolvere. I naufragi erano, insomma, la normalità. Le persone imbarcate e anche gli stessi marinai non sapevano quasi mai nuotare, e per giunta spesso affogavano perché erano pure appesantiti dei loro beni preziosi che tentavano di conservare addosso fino all’ultimo. Inoltre, erano vittime di malattie, carenza di cibo e acqua, infortuni. Quando si scatenavano le tempeste marine innescate dai venti di nord-ovest in vicinanza della costa portoghese che alzavano montagne d’acqua, si cercavano ancoraggi di fortuna (l’ultima ancora, la più grande, a essere gettata in acqua era detta di “misericordia”); venivano calati in acqua, legandoli, i mezzi più pesanti, come i cannoni, utilizzandoli per trattenere l’imbarcazione senza che finisse sulla costa. Solo all’ultimo, quando non c’era altro da fare, si tentava di salvare la nave puntando la prua verso terra, spesso cercando gli avvallamenti di fondale creati da fiumi e torrenti per spingersi più possibile a riva. Quando il naufragio avveniva, le onde e il lavorio del mare avrebbero disintegrato nel tempo le imbarcazioni incagliate e tutto il carico, che quindi era destinato a essere sommerso dalla sabbia. Questo successe anche per le rimanenze del relitto San Salvador, di cui ho localizzato alcune strutture in legno emergenti dal sedimento e la campana, anch’essa per gran parte sommersa nella sabbia, in acqua bassa vicino a riva».
Riassumendo, Lei scopre e recupera questa campana, poi intuisce, nel tempo, che non aveva le caratteristiche per appartenere a quella nave, la San Salvador. Allora decide, dopo alcuni anni, di farla analizzare. Emerge che il reperto è molto antico e rimasto in mare più di 400 anni. Perché il governo portoghese inizialmente si mostra disinteressato al reperto, ma poi l’accusa di furto?
«Parto dalla fine della domanda. Fu un accusa che non stava in piedi, perché io non rubai nulla, anzi denunciai il ritrovamento avvisando sia la Repubblica portoghese che lo Stato spagnolo. La verità era che a loro interessava solo il relitto… e non certo quell’anonima campana consumata e spaccata che, per loro, non aveva alcun valore. Per giunta proposi di offrire il reperto al legittimo proprietario, che è lo Stato spagnolo, in cambio del copyright del ritrovamento; innanzitutto perché volevo scrivere un libro, cosa che poi ho fatto, e poi perché caldeggiavo la richiesta di un atto ufficiale del Re di Spagna per evitare che il reperto sparisse. Ma dovetti comunque subire un lungo e costoso processo, da cui fortunatamente sono uscito vincente per i motivi di cui sopra. Altro che trafugamento archeologico!».
Dopo le accuse e il processo viene scagionato con il riconoscimento dei diritti dello scopritore. Giustizia è stata fatta?
«Si! Durante le complesse vicissitudini della causa la campana, che fortunatamente non è stata ceduta ai portoghesi ma ben conservata nel caveaux del Museo di Storia e Cultura Spagnolo, è stata fatta analizzare da un cattedratico di una prestigiosa Università di Madrid, poi consegnata alla fine del processo non a me ma agli organizzatori dell’asta».
Ma dove si trova, oggi, questa campana?
«Attualmente è negli Stati Uniti ed è di mia proprietà».
Lei è un ingegnere, uomo di formule e numeri, che a un certo punto della vita scopre con una passione da archivista alcuni documenti cinquecenteschi scritti in spagnolo antico, per ripercorrere la storia di quella campana e carpirne segreti centenari. Li abbiamo sommariamente raccontati in alcuni stralci di questo articolo. Ci sono degli ulteriori riscontri scientifici che vorrebbe puntualizzare, che contribuiscono a certificare l’originalità dell’oggetto?
«Dal punto di vista prettamente scientifico, oltre a un’accurata analisi del metallo e alla comparazione del materiale sabbioso, perfettamente combaciante tra quello incrostato sull’ossido e quello della spiaggia del rinvenimento, vorrei puntualizzare che, come si vede da una foto, sull’ossido della campana (il bronzo con cui è fabbricata, sottoposto a elettrolisi del mare per più di quattrocento anni, si è assottigliato fortemente) era incastonata un’antica moneta (un pesos, per la precisione) che faceva parte di quell’epoca e di quel carico che poi, una volta staccata, ha lasciato il suo calco! Ma non solo. Sulla campana è risultato anche dell’ossido d’argento a testimonianza che il reperto prima di rotolare verso la riva ha passato alcun secoli insieme con il prezioso carico del San Salvador. Tutto questo in aggiunta agli importantissimi documenti trovati e, in particolar modo, quello relativo alle richieste del nipote di Colombo».
Lei riesce per giunta a scoprire che la Santa Maria avesse prima un altro nome: Lagallega.
«Esattamente. Tra le altre cose, ho scoperto che è un falso storico che la Santa Maria si chiamasse così all’epoca di Cristoforo Colombo. Si chiamava invece Lagallega, tutto attaccato. Con questo termine si definivano le donne che dalla Galizia andavano in giro per la Spagna facendo le prostitute. Mentre i nomi delle altre due caravelle vengono nominati più e più volte, per quanto concerne la terza nave solo dopo un secolo negli antichi documenti si è cominciato a nominarla Santa Maria. In effetti questo nome creava un certo imbarazzo soprattutto nella Santa Chiesa e non fu certo Cristoforo Colombo a cambiarle il nome. Lo so, può sembrare strano, ma dalle mie ricerche le cose stanno proprio così».
Ingegner Mazzara, Lei si è impegnato moltissimo per questo prezioso reperto. Volendo fare un bilancio, ci sono delle cose che non rifarebbe?
«Di errori ne ho fatti, è ovvio. Il più significativo è stato quello di affidare la campana alla casa d’asta a cui era stata data per la vendita, che non ha certamente brillato dal punto di vista organizzativo. Se il tutto fosse stato gestito diversamente, innanzitutto senza troppi spostamenti, probabilmente non ci sarebbe stato neppure il sequestro, forse sarebbe già stata venduta e sarebbe finita in un museo. Il posto che le spetta».
Quanto vale, secondo lei, questa campana?
«Difficile a dirsi. Oserei dire impossibile perché ha un valore inestimabile. Questo perchè lo ritengo l’unico oggetto esistente relativo alla scoperta dell’America».
Di questa intricata vicenda, quali sono i suoi progetti futuri?
«Vorrei vendere l’oggetto, sarebbe il tassello mancante di questa grande avventura che mi ha dato gioie e dispiaceri, ma siccome le spese sono state davvero ingenti, oggi cerco un collaboratore-finanziatore che mi aiuti a fronteggiare economicamente questa operazione commerciale».