I grandi fotografi: Francesco Turano
Innamorato del mare, è riuscito ad accarezzare uno dei sogni più belli della vita: trasformare la propria passione in lavoro. Fotografo e illustratore, promuove workshop in giro per l’Italia, collabora con riviste del settore e scrive libri. Ripercorriamo assieme a lui una favola divenuta realtà… di Carlo Ravenna
Francesco Turano, talentuoso fotografo subacqueo e illustratore professionista. Un uomo che è riuscito a trasformare la sua grande passione in lavoro. Insomma, una favola che diventa realtà. Lo abbiamo incontrato per farci spiegare come è stato possibile tutto ciò.
«Il mare è tutto per me, è la mia vita, da sempre – racconta -. Non so come spiegare il mare che ho dentro, è qualcosa che se ti prende non ti abbandona più».
Hai scritto che il Mare dello Stretto ti è entrato dentro con invadenza, sino a cambiarti progressivamente l’animo. Cosa vuol dire?
«Lo Stretto di Messina, sulle cui sponde sono nato e cresciuto, non è un mare come tutti gli altri. Lo Stretto è diverso, mitologico, intrigante, pericoloso. Ma l’ho capito nel tempo, frequentando altri angoli blu in giro per il mondo. La “consapevolezza” è cresciuta pian piano, invadendo l’animo e attirando la mia attenzione, coinvolgendomi in un percorso di studio e conoscenza, di interpretazione e ammirazione».
Nel 1984 prendi contatto con la tua prima fotocamera subacquea, a cui si aggiunge presto un flash che trasferisce su pellicola i colori del sesto continente. Fu un passo emozionante?
«Iniziare a fotografare sott’acqua, vedere le prime diapositive a colori non fu solo emozionante, fu molto di più: fu un violento colpo al cuore, un impulso folgorante che mi fece abbandonare per sempre la pesca a soli vent’anni per dedicarmi alla perlustrazione delle acque attraverso la fotografia della natura sommersa».
In quegli anni il sistema reflex in custodia avanza a grandi passi, ma tu non hai abbandonato facilmente la mitica Nikonos. Perché?
«Non ho mai pensato, al tempo della pellicola, che le fotocamere scafandrate potessero sostituire le Nikonos, ma solo offrire un’alternativa. Mentre per molti si trattava di un avanzamento di livello, per me non fu mai così e continuai a utilizzare con soddisfazione le Nikonos insieme con la reflex in custodia. Ma dove arrivavo con la piccola e maneggevole anfibia non potevo arrivare con la custodia, riuscivo così a fotografare situazioni impossibili per qualsiasi altro sistema, ovviamente più ingombrante e poco pratico quando fai certe immersioni e stai dietro ai pesci del Mediterraneo. Certo, riprendere con la Nikonos non era semplice, specie in campo lungo e su scene di ampio respiro, ma la pratica infinita (stavo sempre in acqua) mi ha aiutato a superare molti ostacoli».
Hai preso parte ad alcuni concorsi, poi però quel mondo gradualmente inizia a starti stretto. Come mai?
«Non amo competere e non mi piace il confronto tra fotografi. Sarebbe come mettere a confronto due artisti, impossibile: ognuno ha il suo stile, ognuno le sue creazioni. Non esiste uno più bravo e uno meno capace, ma solo opere diverse, più belle o meno belle a seconda dei gusti. In ogni caso per me la fotografia è un mezzo per vivere il mare, non è mai stato uno strumento per soddisfare il mio ego. Fotografo per comunicare e condividere la vita sommersa. Un modo per emozionarmi, per rivedere e ricordare istanti vissuti sott’acqua, per studiare le meraviglie della natura, per conoscere e difendere l’immensa biodiversità che si cela sotto le onde».
A un certo punto della tua vita, fotografando, disegnando e scrivendo di mare e di natura, intravvedi all’orizzonte la possibilità di trasformare tutto ciò in un lavoro. Ma è davvero possibile, oggi, vivere di fotografia subacquea?
«No, Oggi è impossibile. Infatti mi muovo su più fronti, disegnando, scrivendo e fotografando. Con la pellicola era diverso, con il digitale le cose sono invece cambiate, ma non voglio esprimermi su un argomento che si può affrontare solo scrivendo un libro intero».
Parliamo di social. Si assiste a un’enorme profusione on line di fotografie, fatte con ogni mezzo. C’è chi ritiene che pubblicare molte immagini possa gradualmente creare una sorta di assuefazione, al punto che devono essere sempre più belle e particolari per colpire chi le guarda. Esiste realmente questo rischio?
«Non credo ci sia questo rischio. Per quanto mi riguarda vado in mare quasi ogni giorno e pubblico molte foto, lo faccio per lavoro e comunicazione: mi ritengo un divulgatore. Non temo di annoiare e non credo che le foto debbano essere sempre più belle per colpire. Le albe e i tramonti di domani non devono essere più belli rispetto a quelli di oggi, semplicemente perché sono gli stessi da sempre. Molti neppure fanno caso alla grande, esplosiva bellezza che l’inizio o la fine di un nuovo giorno ci regala, altri invece ne rimangono incantati, assaporandone le suggestioni e i colori come se fosse sempre la prima volta. Oggi la sensibilità e il desiderio intimo di emozionarci sono andati perduti, siamo figli di una società malata. Spesso siamo superficiali, probabilmente poco consapevoli, invece dovremmo tornare ad avere un diverso e più equilibrato approccio verso la vita, la nostra vita, che è un dono meraviglioso».
Dal 1999 inizi la tua produzione editoriale. Quali sono le pubblicazioni alle quali sei più affezionato?
«Sono affezionato alla prima, del 1999, sul mare dello Stretto, e al mio unico libro fotografico, sempre sui mari di Calabria. Non scrivo titoli e non cito editori perché i libri non si trovano più…».
Noto che usi spesso il termine “consapevole”. C’è un modo, secondo te, per affrontare la subacquea e la fotosub in modo “consapevole”?
«C’è un modo per vivere la nostra passione in modo certamente consapevole, sebbene devo premettere che oggi molti subacquei si immergono senza disporre dei giusti strumenti per conoscere il mare, la sua ricchezza e le sue fragilità, con il risultato che spesso l’immersione si riduce a un banale percorso sul fondo alla ricerca di ciò che di più grande e scontato si possa osservare. Immersioni “mordi e fuggi”, divertimento fine a sé stesso. Ecco perché gli italiani sovente vanno all’estero e snobbano il Mare Nostrum. Non c’è un desiderio potente che ci induce a esplorare e scoprire, ci si applica poco. Per la fotografia è un po’ la stessa cosa: spesso chi fotografa non conosce neppure ciò che inquadra. Si punta al bello dell’immagine e si ignora il resto, quasi fosse la panacea del male. Salvo casi rari. A proposito di “consapevolezza”, recentemente sono diventato portavoce di un messaggio che invita alla presa di coscienza dei subacquei: “Aware Divers”, in collaborazione con gli amici dell’associazione MEGISS Dive Lab».
Potrai mai fare, in futuro, un lavoro diverso da questo?
«Giammai. La mia vita è il mare e continuerà a esserlo. Qualsiasi cosa, fatta per gioco o per lavoro, sarà sempre attraverso il mare e nel mare. Non c’è altra via».