Cattedrali nel blu
Tra Capo Caccia e Punta Giglio, nella complessità della Grotta di Nereo e le immagini sensazionali dei resti fossilizzati dei cervi nani di Sardegna, oggi estinti, nella grotta omonima di Carlo Ravenna
Porto Conte è la baia racchiusa tra i promontori di Capo Caccia e Punta Giglio, che ricade in un’Area Marina Protetta, chiamata Capo Caccia – Isola Piana, a ridosso del Parco di Porto Conte. Questa porzione della Sardegna nord-occidentale è contrassegnata da paesaggi costieri scoscesi e drammatici, dominati da falesie alte e ripide sbalzate sul mare aperto e scuro, che a volte sembrano non dover fronteggiare le acque chiuse del nostro Mediterraneo ma un vero e proprio oceano in tempesta. Sulla cima, a 168 metri sul livello del mare, domina il faro più alto del Mediterraneo; da lassù, lo spettacolo è maestoso.
Venti di nord-ovest soffiano per 500 chilometri di immenso blu senza incontrare alcun ostacolo, alzando onde gigantesche che si abbattono ruggendo su montagne impervie, che sanno anche essere accogliente quando il mare si ferma e accarezza la falesia. È allora che ogni insenatura, ogni angolo diventano invitanti, quasi protettivi. In questi momenti entrare in barca nella scenografica grotta passante dei Palombi, che scava sul livello del mare l’Isola Foradada, dirimpetto al capo, è un’esperienza che non si dimentica.
Mentre scrivo questo articolo ho sotto mano una pubblicazione, molto curata, che analizza 17 grotte sommerse censite a Punta Giglio, altre 13 a Capo Caccia, con tanto di rilievi, descrizioni geo-morfologiche e biologiche. Ma queste sono soltanto alcune tra le più significative cavità di veri e propri labirinti sommersi di ogni forma e ampiezza. Ad alcune di queste fratture della montagna non è stato dato neanche un nome, mentre altre vengono identificate con appellativi diversi a seconda del presunto scopritore, di specifiche particolarità, della presenza di piante e animali rinvenuti all’interno. Si riporta che ci siano almeno una cinquantina di cavità più o meno significative e ben 300 tra piccole grotte e anfratti. E chissà, magari ci sarà ancora qualcosa da scoprire…
Ma che forma ha questa variegata costa? Immaginiamo di modellare a nostro piacimento un territorio che, visto dall’alto, ha la forma di trapezio: scaviamolo profondamente sul lato orizzontale in basso, in modo da avere due forme diverse e ben separate: un triangolo isoscele a sinistra e una specie di stivale a destra. Ora, aiutati da una mappa costiera, diamo il nome a ciò che ne viene fuori: il triangolo è il promontorio di Capo Caccia, l’incavo centrale è la grande baia di Porto Conte, lo stivale è tutta la zona rimanente, compresa tra Punta Giglio a ovest e il golfo che finisce a est nell’abitato di Fertilia e, più a sud, di Alghero.
Un mondo buio e misterioso
Capo Caccia colpisce per la verticalità delle sue falesie occidentali eppure, a pensarci bene, il tenero calcare di cui è composto non raggiunge la forza mostrata dall’intensità paesaggistica, perché nei millenni si sgretola sotto i colpi del mare e del vento che lo alimenta, ma anche semplicemente sotto l’incessante stillicidio d’acqua dolce che lentamente, goccia dopo goccia, apre voragini nel cuore della montagna.
Cosicché il promontorio, così come l’area meno scoscesa di Punta Giglio, è un’immensa groviera fatta di misteriosi cunicoli, di camini e sifoni, di sale che ricordano le navate di una chiesa, di imponenti colonnati formati da stalattiti e stalagmiti. Tutto ciò trova la sua massima espressione sott’acqua nella celebre Grotta di Nereo, che secondo stime attendibili è la più grande cavità marina d’Europa.
La Grotta di Nereo
E’ la più spettacolare, quella che potremmo definire la madre di tutte le grotte costiere d’Italia. 350 metri di sviluppo, le volte maestose, con un’altezza che arriva a sfiorare i dieci metri, un dedalo impensabile di cunicoli e diramazioni, colonie fitte di rametti di corallo rosso, superstiti delle razzie dei decenni passati.
Il fondale sulle varie imboccature è puntellato da grandi franate, che paiono una raffica di sassi piovuti dalle falesie. Le entrate più scenografiche, chiamate gli Archi di Nereo, sono a ovest, a una quindicina di metri, presso la Cala dell’Asino. Qui, quando nelle prime ore del pomeriggio il sole affonda i suoi raggi, sott’acqua è affascinante veder disegnate le stilettate dorate che artraversano le grandi aperture e gli altri piccoli ingressi, regalandoci un impagabile gioco di luci-ombre.
Un altro ingresso è situato più a nord, oltre i 30 metri, presso la roccia del Sommergibile, a testimonianza che l’andamento delle concamerazioni è complessivamente sviluppato in obliquo. È ovvio che una visita approfondita meriti vari tuffi, preparazione e attrezzature adeguate.
Oltre al corallo rosso, all’interno troviamo la classica fauna delle penombra e quella dell’oscurità, con qualche astice, una moltitudine di granchi facchini e gamberi meccanici, il piccolo ghiozzo leopardo, le corvine e anche l’Oligopus ater, un pesciolino esclusivo delle grotte buie. Sul fondo, nelle pozze di sedimento, grandi cerianti raccolgono il materiale organico che cade a pioggia dal cielo delle cavità. E di notte non manca la sorpresa: per esempio un grande dentice che viene dal largo a riposare nei grandi antri. Fuori, soprattutto in estate e all’inizio dell’autunno, c’è un incessante movimento di pesce: cernie, branchi di ricciole, barracuda. Oppure, com’è successo al sottoscritto, l’insolita scena pochi metri sotto la superficie di una spigola ospite di un branco di salpe.
La Grotta dei Cervi
È “sufficiente” un volo di 50.000 anni nella storia della vita, cioè verso un’epoca che sembra lontanissima se rapportata alla nostra breve permanenza sulla terra, per scoprire che tutta questa zona aveva un aspetto completamente diverso da quello attuale. Era l’epoca dell’ultima delle grandi glaciazioni, iniziata circa 110.000 anni fa, in cui il territorio si trovava in una fase di abbassamento del mare, distante circa 3 miglia dall’attuale linea di costa. Prati e foreste ricoprivano le montagne digradanti verso il Mediterraneo di allora e tutto il Golfo di Porto Conte ci viene descritto dagli specialisti come una grande vallata.
Doveva essere un angolo selvaggio, verdeggiante, dominato dai massicci calcarei di Capo Caccia e Punta Giglio, del tutto simili ad alture dolomitiche. Questi ambienti erano popolati da straordinarie specie animali, molte delle quali estinte. Tra queste un particolare cervide detto megacero, noto come Megaloceros cazioti algarensis, che scorrazzava nella natura selvaggia della Sardegna, caratterizzato da una varietà di taglia ridotta rispetto alla specie tipica. C’era anche l’uomo, allora, rappresentato da un nostro diretto antenato, che abitava le grotte scavate nella roccia, considerate dagli studiosi le più preziose custodi di alcuni tra i capitoli della nostra preistoria, nonché gli ambienti che, per antonomasia, meglio raccontano il succedersi degli eventi geologici innescati dal motore del pianeta.
Nel corso dei millenni, con la pazienza e la pervicacia che solo la natura può avere, il mare andò via via sollevandosi di decine e decine di metri, sino a raggiungere e invadere, parzialmente o totalmente, quelle grotte continentali che poi sarebbero diventate marine. È un processo ancora in atto, grazie al quale l’assetto costiero acquisì progressivamente l’attuale configurazione morfologica e paesaggistica.
La scoperta dei fossili
Nel settembre del 1995 Marco Busdraghi si muoveva tra i meandri bui della Grotta di Punta Giglio. Doveva essere una sommozzata come tante altre, ma a un certo punto fu attirato da strane concrezioni della roccia scolpite in una nicchia semiaffiorante di un laghetto interno: in realtà, si trattava non di semplici rilievi, bensì di un vero e proprio giacimento fossile di cervi sardi, costituito da moltitudini di ossa, diversi crani e palchi. Fu una scoperta sensazionale.
Ma la domanda sorge subito spontanea: come ci sono arrivati i cervi e (in minor misura) anche altri piccoli animali oggi estinti, soprattutto mammiferi, dentro questa grotta? La ricerca di notizie ci ha portato a verificare che sussistono delle ipotesi: potrebbero essere resti fossilizzati di cibo umano accatastati nei recessi della montagna, visto che queste cavità erano abitate dai nostri antenati, oppure che la grotta fungesse da ricovero naturale per questi animali. E a questo proposito si riporta che i megaceri fossero soliti radunarsi numerosi in un punto “pericoloso” della spelonca (soprattutto in condizioni metereologiche avverse), ovvero nei pressi di una lunga e stretta apertura entro cui qualche esemplare del branco poteva anche precipitare e finire nel grottone sottostante, attualmente allagato e comunicante con l’esterno attraverso un cunicolo. Questa curiosa teoria sarebbe suffragata dalla conformazione a tre livelli della grotta, morfologicamente non dissimile da quella del lontano passato e caratterizzata ancora oggi da un ambiente aereo.
Comunque siano andate le cose, è certo che la presenza di questi giacimenti testimonia il fatto che un tempo questa grotta non era ancora invasa dal mare, il che permise il processo di fossilizzazione. In altre parole, il carbonato di calcio sciolto dalle acque meteoriche inglobò nella roccia le ossa dei cervi e di altri animali estinti. Interessante è lo sviluppo di una piccola stalagmite sopra un cranio, riconoscibile dalla calotta e dall’arco dentato ancora legato alla mascella.
Il cervo nano di Sardegna (Megaloceros cazioti algarensis)
Quei resti fossilizzati appartengono a una specie oggi estinta. Con il nome di megaceri si intendono dei cervidi di grandi dimensioni, probabilmente facenti parte di due linee evolutive separate, comprendenti rispettivamente specie del genere Praemegaceros e Megaloceros. Erano animali alti sino a due metri alla spalla, caratterizzati da arti allungati ma robusti, vertebre del collo particolarmente sviluppate negli esemplari maschili, i quali erano muniti di pesanti corni (palchi), ramificati o palmati a seconda delle specie.
Megaloceros cazioti algarensis, il cosiddetto cervo nano di Sardegna, è una piccola specie di megacero evoluta dal cervo Megaloceros giganteus. Secondo un’affascinante teoria sembra che la riduzione di taglia derivi, nel corso dell’evoluzione, dall’assenza sull’isola di potenti competitori naturali situati a capo delle catene alimentari. Eppure gli esperti dell’Università di Sassari affermano che l’estinzione del megacero, vissuto in questa regione in un periodo presumibilmente compreso tra 120.000 e 75.000 anni fa (ma non si esclude che 40.000, 30.000 anni fa fosse ancora presente), sia probabilmente attribuibile alla pratica della caccia attuata, guarda caso, da quello che nel corso dei millenni si sarebbe rivelato il più pericoloso dei predatori, presente in Sardegna sin dal paleolitico: l’uomo.
E adesso in acqua
Poco dopo aver doppiato Capo Bocato, caliamo l’ancora su un fondale poco profondo di rocce e posidonia a breve distanza dall’entrata della Grotta dei Cervi, che si apre sotto una porzione di grotta aerea. La parete cade a picco e a circa otto metri ci sono due condotti di entrata, il principale sulla destra. In questa porzione di luce attenuata la vita sessile è piuttosto sviluppata, con rametti di corallo rosso, poriferi di varie specie, patate di mare, alghe, tra cui forti concentrazioni di rodoficee del genere Peyssonellia, ciuffi di posidonia, qualche eunicella.
Via via che si procede verso l’interno e la luminosità decresce, la roccia si fa più spoglia, colonizzata da policheti serpulidi, qualche madreporario, poriferi sparsi di piccola taglia appartenenti a specie caratteristiche delle biocenosi delle grotte semi-oscure.
Da non perdere una spugna, una chicca della zona, che ha l’aspetto di un mammellone bianco piuttosto duro: Petrobiona massiliana, considerata un fossile vivente poiché si credeva quasi estinta dopo il Cretaceo.
Si percorre un sifone breve e piuttosto agevole che conduce in una sala buia, abbastanza grande e parzialmente invasa d’acqua. Procedendo si risale lentamente fino a raggiungere una specie di gradino sommerso, dove è possibile levare l’erogatore dalla bocca e respirare liberamente. Il successivo superamento, un po’ meno agevole, di un secondo gradino consente di raggiungere una sala ampia e molto bella, che non dà alcun senso di oppressione, un po’ per il facile percorso di avvicinamento, un po’ perché è anche possibile nuotare in superficie. La roccia appare in alcuni tratti di un colore piuttosto scuro, quasi nerastro, dovuto a uno strato di ossidi di ferro e manganese.
Ci siamo quasi. Superiamo questo salone che ha l’aspetto di una buia piscina sotterranea indirizzandoci verso una profonda fenditura nella parete. Sulla parte destra ecco apparire per incanto il giacimento: illuminato dai fari appare in tutto il suo fascino, ben visibile sopra la linea d’acqua. Sembra l’opera bizzarra di uno scultore che ha creato nella roccia una cascata di forme bianche e tondeggianti, intervallate a gruppi di ossa di tutte le dimensioni: l’insieme è praticamente cementato nella montagna, come cresciuto in verticale pezzo dopo pezzo.
Non rimane che documentare questo scenario come meglio posso. In base a un accordo preso prima dell’immersione, mi levo le pinne riponendole su una roccia e anche le bombole, che galleggiano assieme al jacket gonfio nell’acqua immobile. Poi entro nella nicchia, cercando una posizione meno scomoda possibile, tutto rannicchiato con la custodia addosso e i bracci dei flash che escono fuori dall’acqua. Forse c’è un po’ di fatica e di stress, ma in questi meravigliosi momenti posso dire che l’emozione e l’adrenalina fanno dimenticare ogni sforzo, preso dalla concentrazione di fotografare le porzioni più interessanti di questo piccolo tesoro rimasto nascosto per decine di migliaia di anni nel buio, dentro a una cattedrale di roccia.