Con il mare nel sangue
Il ritratto di un grande personaggio della subacquea, il suo lungo cammino nel mondo della didattica e le esplorazioni come scelta di vita. Fabio Ruberti è stato in gioventù nella Brigata Paracadutisti Folgore, poi ha fatto del mare e delle immersioni la sua professione. Dottore in Storia con una tesi sull’archeologia subacquea, è uno dei più affermati studiosi di relitti, la sua grande passione. I suoi preferiti sono la Corazzata austro – ungarica Szent Istvàn e lo Scirè, il sommergibile italiano della X Flottiglia Mas di Carlo Ravenna
Fabio Ruberti, nato a Pisa il 23 luglio 1955. Segno zodiacale: leone. Ora, all’astrologia si può credere o non credere, ma tra le caratteristiche del leone, segno tipico dei caratteri impetuosi e di forte personalità, ce n’è una che mi colpisce: la voglia di dominare sul tempo. E le pagine del suo vasto ed eterogeneo curriculum sembrano proprio il sommario di un coinvolgente libro di avventure, dove si avverte la forte sensazione che ancor prima di essere un esploratore degli oceani, Ruberti appare come un uomo che, spinto dal desiderio della conoscenza, ama misurarsi con la vita: affrontandola tutta d’un fiato, assaporandone il fascino, la bellezza, il senso dell’ignoto. Poco incline alla rinuncia a qualcosa in cui siano riposte delle aspettative. Gli abbiamo chiesto se è così…
«Direi di sì. La tua analisi risponde esattamente alla realtà. E aggiungo che oggi come oggi, benché senta di essere umanamente e mentalmente quello di un tempo, l’animo è quello e lo spirito pure, devo pure ammettere a me stesso che benché mi sia sempre sentito un cavallo nato per correre… le anche e il garrese prima o poi iniziano a dare i primi segni di cedimento! Quello che, di contro, succede con l’età è che la maturità tolga gradualmente spazio alle scelte fatte d’istinto, di impeto. Ma la passione no, quella non invecchia! E’ lei il faro che tra le difficoltà e le opportunità che la vita riserva, ha fatto luce e mi ha permesso di avventurarmi nel lungo e intricato percorso nel mondo della subacquea, a partire da un’epoca in cui, parliamo dei primi anni ‘80, l’insegnamento professionale era praticamente sconosciuto».
Ti faccio una domanda a bruciapelo: come si diventa… Fabio Ruberti?
«Devi sapere che abito a 50 metri dal mare e di fronte al mare ci ho sempre vissuto, pertanto è normale che un ragazzino trovi nel mondo acquatico l’eldorado del tempo libero: la pesca, il nuoto, la barca a vela. Pensa che quando incontro qualche anziano che conosco da sempre, ebbene costoro ancora si ricordano che stavo più in acqua che fuori!
«Ma il mare divenne protagonista della mia vita quando, a un certo punto, intravvidi davanti a me più un immenso blu che la carriera militare sulla quale avevo già da qualche anno riposto i miei progetti lavorativi. Avevo 28 anni quando mi congedai e mi ritrovai davanti a un bivio. Tuttavia, le esperienze maturate in quegli anni erano destinate, almeno per un primo periodo, a intrecciarsi. Avendo infatti una buona conoscenza della lingua inglese (i militari mi utilizzavano spesso come interprete), successe che tra i colleghi della base americana con cui mi lanciavo assieme come paracadutista, tre ufficiali a cui dissi che ero un subacqueo mi chiesero (un anno prima del congedo) di insegnare loro ad andare sott’acqua. All’epoca mi appoggiavo alla Fias, e successivamente mi venne proposto di continuare ad addestrare militari d’oltreoceano, a patto di utilizzare un’altra scuola d’immersione, la Padi, perché a loro, essendo americani, serviva ovviamente quel tipo di riconoscimento. Quindi sarebbe stato necessario diventare istruttore Padi, da noi all’epoca ancora poco o niente diffusa. In quegli anni non c’erano certo internet, wikipedia e i social, non c’erano neppure i telefonini. Chiedendo in giro, venni a sapere presso un negozio subacqueo che, a Livorno, la Dacor organizzava corsi Padi. Il mio primo contatto fu con un personaggio che sarebbe diventato molto famoso nell’ambiente, oltre che un caro amico, ma che oggi purtroppo non c’è più: Umberto Pepoli. Era, insomma, la storia degli inizi…una storia fatta di punti interrogativi, ma anche di aspettative, di sogni.
«Fatti i corsi e ottenute le certificazioni – continua a raccontare Ruberti -, i primi anni insegnai subacquea agli americani. E dato che la vita è tutta un divenire, la gente mi osservava portare in acqua queste persone, quindi riuscii ad ampliare il mio raggio d’azione e con il passaparola, almeno fino alla metà degli anni ‘90 e oltre, spinsi molto sui corsi contribuendo in modo incisivo alla diffusione italiana di questa didattica. Operavo da Marina di Carrara, al confine con la Liguria, sino a Marina di Cecina, la zona di Grosseto. Insomma, mi facevo quasi tutta la Toscana».
Ti interrompo perché mi viene in mente una domanda. Ma prima riassumo: come per molti di noi, la passione per la subacquea nasce tra le scogliere sotto casa. Su e giù, trattenendo l’aria nei polmoni. Nel tuo caso, però, sfocerà nel professionismo. Eppure c’è un periodo della tua vita, in cui sei stato ufficiale in servizio presso la Brigata Paracadutisti Folgore. Parliamo di fine anni ‘70, inizio anni ‘80. Insomma, mare e cielo. Tu che li hai esplorati entrambi, questi due mondi, pensi che dal punto di vista emozionale ci sia, se c’è, un filo conduttore?
«Si, c’è qualcosa tra questi due mondi in cui emotivamente, passionalmente, ho intravvisto un punto di raccordo. Ma al tempo stesso c’è anche una ben definita demarcazione. Nel cielo, la prima passione, senza voler esagerare con le parole, ci trovo del metafisico, in quanto si materializza nell’uomo la voglia quasi di volare, la magia dello staccarsi dalla terraferma, e ci si sente un po’ come un’aquila che scruta il mondo dall’alto facendolo apparire in una forma quasi tridimensionale. Sott’acqua la visione, invece, è lineare, ma c’è qualcosa di più: il senso di mistero, in quanto la gittata dello sguardo non abbraccia l’immenso come nell’aria, ma si ferma davanti all’ostacolo naturale di un sistema di rocce, che è solo a pochi metri di distanza. Più in là, non resta che una fascinosa e indefinita coltre liquida. Questa meravigliosa suggestione dell’ignoto la vivevo più agli inizi che oggi, quando esploravo nella mia zona le grandi e frastagliate Secche della Meloria: tanta vita in un dedalo di rocce, con l’acqua spesso torbida. Poi, ovviamente, dopo tanti anni, un pochino ci si assuefà alla grande bellezza dell’esplorazione dei mari. Ma la magia sta tutta lì: proprio nell’effetto di stemperamento dell’acqua all’orizzonte liquido, per cui la progressione del nostro sguardo si esaurisce dopo poche decine di metri, sia in senso orizzontale che verticale. E se non c’è limpidezza, lo spazio tra il sub e l’invisibile può ridursi a pochi centimetri».
Titolo di studio: Dottore in Storia, con una tesi in archeologia subacquea. Parliamone…
«Tra avventure e disavventure, mi sono laureato a 51 anni, nel 2006. La passione per la storia ha sempre accompagnato le mie esplorazioni e soprattutto dopo l’esplosione che c’è stata negli anni duemila della subacquea tecnica, che mi ha fornito peraltro i fondi necessari per intraprendere delle attività di tipo culturale, ho iniziato a organizzare una serie di spedizioni. La mia prima grande avventura esplorativa è stata sul relitto della corazzata austro-ungarica K.u.K. Szent Istvàn (Corazzata Santo Stefano), affondata il 10 giugno 1918, che giace alla profondità di circa 67 metri nel Mar Adriatico, al largo dell’Isola di Premuda. Questo relitto, su cui peraltro ho scritto uno dei miei libri, è sottoposto alla tutela del Governo della Repubblica di Croazia e su di esso si sono svolte varie Ianyd Expeditions ufficiali, la prima delle quali nel 2003, vincendo le diffidenze del governo che aveva posto un divieto d’immersione. Mi hanno sempre appassionato i relitti, lo dico sempre: di più quelli contemporanei, grandi e perlopiù in acciaio, il cui studio si basa sul ritrovamento e l’analisi della relativa documentazione storica, come fosse una sorta di controverifica. Definisco tale controverifica un’archeologia “assistita” da tutti i documenti che è fondamentale cercare con pazienza e fiuto, basata sull’analisi del dato storico che potrebbe essere o non essere stato tramandato correttamente. E’ ben diversa da quella vera e propria relativa, ad esempio, alle navi antiche, come quelle Romane, il cui studio è una specie di ingegneria che definirei al rovescio, perché si parte “sezionando” l’oggetto ritrovato, ad esempio la forma e il materiale di un’anfora, per arrivare alle vicissitudini storiche dell’affondamento e alla conoscenza della nave, nella maggior parte dei casi troppo datata perché sussistano relative documentazioni».
Cosa rappresenta la discesa su un relitto sconosciuto per Fabio Ruberti? Quali intime e segrete sensazioni provi mentre ti libri nel blu nel preciso istante in cui inizi a veder delineato, a volo d’uccello, quel che resta di una nave ormai appartenente al mare…
«Chiaramente è successo tante volte, ma intravvedo in me una specie di ripartizione in due tipi di sensazioni, perché il sapere cos’era quel relitto e la voglia incontenibile di volerlo visitare da tanto tempo, è un’emozione diversa da quella che si prova quando si scende su un manufatto storico di cui non si sa nulla. In altre parole, subentra, nel secondo caso, il fattore “mistero” che ha fatto da volano nella mia vita e provoca batticuore. Ad esempio, sulla Santo Stefano c’era stato qualcuno, ma sostanzialmente nulla di significativo era stato prodotto, di conseguenza tutta quell’avventura nella sua globalità ebbe il sapore della realizzazione di un sogno. Il mio sogno. Poi però c’è un secondo step, legato alla maturità, basato sulla voglia di una conoscenza di tipo razionale. Infatti, la mia passione e la curiosità per i relitti mi riporta al percorso mentale della filosofia greca, che va dal mithos, in cui la presenza del fattore emotivo contempla o riempie, in un certo senso, un’assenza di dimostrazione, al logos (la dimostrazione ben fondata della verità), cui si attinge invece attraverso l’argomentazione razionale. Nel mio modo di essere e di pensare, l’emozione è quindi legata al momento iniziale, ma necessita di completarsi con la conoscenza. Ecco perché voglio sapere tutto, gradualmente, del manufatto storico con cui, di volta in volta, ho a che fare».
I “tuoi” relitti più coinvolgenti, quelli a cui sei più legato…
«Principalmente sono due. Sono i relitti a cui sono più affezionato e sono quelli sui quali ho studiato di più. La Santo Stefano è stata la mia tesi di laurea, a 51 anni. Ora che ne ho quasi 65 e non mi ferma nessuno, sto preparando un dottorato di ricerca sullo Scirè, il sottomarino affondato nel 1942 dagli inglesi, che conto di finire per l’anno prossimo. Ci sto lavorando molto, calcola che ormai non mi tuffo soltanto sott’acqua, ma anche negli archivi e, nello specifico, in quelli inglesi».
Hai scritto svariati libri. Il più bello per Fabio Ruberti è il… “prossimo”, o ce n’è qualcuno irripetibile tra quelli pubblicati?
«Intanto credo di poter dire che il prossimo potrebbe essere sullo Scirè, e forse, chissà, un altro che ripercorra la mia esperienza di vita, sulla quale mi sono buttato all’assalto con un’energia dirompente. Ma a parte questo, entro nel merito della domanda e ti rispondo così: i miei libri, sostanzialmente, raccontano fatti nella maniera più obiettiva possibile, quindi non c’è, emotivamente, la mia storia personale, se non le vicissitudini legate alle spedizioni. La mia letteratura è oggettiva, non soggettiva: su un relitto viene descritta la discesa, non l’emozione della discesa, che devierebbe il mio modo di scrivere dirottandolo verso un’autobiografia, verso un romanzo. Cosa che non escludo di realizzare, prima o poi. La personale soddisfazione nello sfogliare un libro firmato Fabio Ruberti che giace sugli scaffali della libreria, sta nella convinzione di essere riuscito a riportare minuziosamente alla luce, tentando sempre di non lasciare nulla al caso, ogni aspetto della storia di una nave, di un sommergibile e via dicendo, ovviamente ripercorrendo le due fasi della sua vita, la seconda della quale in fondo a mare».
Hai fatto dell’esplorazione una scelta di vita. Cos’è il lavoro di squadra quando bisogna affrontare le insidie del mare aperto, l’acqua gelida o quella torbida come il caffellatte? Quanto conta lo spirito di gruppo e che range di spazio c’è, se c’è, per l’individualismo, ovviamente inteso nel senso propositivo del temine?
«La scelta dell’equipaggio di una spedizione la definirei… vitale. E’ necessario gestire l’ego di ciascun membro, perché un ego fuori controllo ha la potenzialità di creare dissidi interni. Si porta a casa il risultato con un lavoro di squadra. La selezione dei partecipanti per realizzare qualcosa di importante si basa sulla bravura e l’esperienza degli stessi, certo, ma le “prime donne” sono pericolose. Meglio essere un’equipe di soldati che lavorano altruisticamente gli uni per gli altri, mettendoci tutta la propria passione, il proprio talento, la propria energia. Ogni spedizione persegue un meraviglioso obiettivo che, però, non è sempre facile da raggiungere: a questo obiettivo tutti i componenti di un team devono ambire con abnegazione ed entusiasmo, tentare di eccellere individualmente non funziona. La spedizione non deve mai diventare una fiera della vanità, il che potrebbe peraltro incrementare il fattore di rischio, come si intuisce dalle parole con cui hai formulato la domanda».
Rinuncia. Esiste questa scelta per un esploratore che ha creduto fortemente in un progetto lavorativo?
«Esiste. Certamente! Ed esiste soprattutto quando si ha un ruolo di leadership che deve presupporre la responsabilità gestionale di altre persone. In tal caso, più che mai, il concetto del “prendersi dei rischi” per non rinunciare, tassativamente non deve esistere, posto che la sicurezza del gruppo è prioritaria. L’esperienza mi ha insegnato che esiste una cartina tornasole nello svolgimento delle operazioni lavorative legate alle spedizioni subacquee: quando si avverte la sensazione che è necessario fronteggiare situazioni emotive negative quali lo stress, la paura e via discorrendo, vuol dire che qualcosa non sta andando nel verso giusto, c’è qualcosa di sbagliato. Quando invece tutto sta filando per il meglio, ecco che le giornate si susseguono all’insegna dell’ordinarietà, della normalità, paradossalmente come se non si stesse facendo qualcosa di speciale».
Parliamo di didattica e veniamo alla Iantd, un altro tuo cavallo di battaglia! Nata negli Usa con il nome di Iand (International Association of Nitrox Divers), fondata da Dick Rutkowsky nel 1985, poi acquisita da Tom Mount nel 1990, che la trasforma in Iantd (International Association of Nitrox Technical Divers), inventando il neologismo di Technical Diver (Subacqueo Tecnico) che fino allora non era mai stato usato. Tu ne acquisisci la licenza nel 1993, quando eri già subacqueo da quasi venticinque anni. Per un super-qualificato istruttore come te, la Iantd è un punto di arrivo o un’ennesima tappa, benché fondamentale, del tuo lungo viaggio nel mondo della subacquea?
«Mi rendo fisiologicamente conto di essere in un’età che pur non collimando con la vecchiaia vera e propria, mi fa pensare che la somma dei miei annetti renda questa tappa quasi un punto di arrivo, anche perché è da giovani che i traguardi prefissati si realizzano con maggiore facilità. La maturità porta, vuoi o non vuoi, a strutturare sé stessi entro determinati schemi mentali dai quali, con l’avanzare degli anni, è sempre più difficile uscire. Le praterie della vita in cui galoppare alla ricerca di nuove mete si riducono sensibilmente, è innegabile! La Iantd mi ha consentito di realizzarmi dal punto di vista professionale in modo soddisfacente, ma certamente quando penso al futuro posso dire che uno dei problemi principali con cui dovrà misurarsi la subacquea dal punto di vista didattico, sarà la capacità di incuriosire gente giovane, cosa che per tutta una serie di motivi sembra stia gradualmente venendo meno».
E allora? Che consigli daresti a un giovane che accarezza l’idea di intravvedere nel mondo attuale della subacquea il proprio futuro lavorativo?
«Il futuro non è roseo, purtroppo; lo ribadisco con un certo dispiacere. Per anni e anni c’è stata, innanzitutto, troppa inflazione, le agenzie didattiche hanno sfornato troppi istruttori, si è innescato un regime di eccessiva concorrenza sui prezzi e sulla qualità. Difficile uscirne, ma non è neppure impossibile, ci vorrebbero un’organizzazione a monte e delle regole ferree per gestire in modo razionale questo disordine, in modo da stabilire chi ha idoneamente le capacità di andare avanti. Ed è allora che un istruttore potrà tornare a essere un professionista in grado di vivere di questo lavoro. La crisi in Italia non aiuta in questo processo di inversione di tendenza, la stagione è corta e i diving center ne soffrono, i costi per praticare l’attività subacquea non sono esigui per un giovane che voglia affrontare questo mondo. Ma è pur vero che se si ha passione si può superare ogni ostacolo, la vita me l’ha dimostrato, quindi la regola è sempre la stessa: mai abbandonarsi al pessimismo!».
Tra i subacquei più irriducibili si iniziano a vedere molti rebreather. Secondo te, il circuito chiuso è l’unico futuro possibile per un sommozzatore professionista?
«Tecnologicamente il circuito chiuso va oggi considerato, indubitabilmente, come l’unica porta realmente aperta alla fine del lungo corridoio che si è percorso per decenni immergendoci espellendo bolle dall’erogatore. Si possono fare mille obiezioni più o meno giuste, corrette, ma se c’è una evoluzione tecnologica, ebbene quella è lì, nel circuito chiuso. L’avvento di questo “nuovo” modo di andare sott’acqua presuppone, però, maggiori capacità, molte più cognizioni, ed è necessaria una maggior selezione perché il rebreather non è per tutti. Nuovi orizzonti, quindi: le profondità operative raggiungibili con queste macchine sono quelle che sono, ormai lo sappiamo tutti, i tagli sui tempi delle deco sono ragguardevoli se paragonati a quelli in circuito aperto, e tornando al discorso spedizioni, logisticamente si assiste a un grosso passo avanti perché, tanto per dare dei numeri, sei o sette immersioni per dieci o quindici persone significano un quantitativo di bomboloni di ossigeno ed elio che definire significativo è limitativo, anche perché per ogni subacqueo bisogna considerare come minimo un bibombola e due decompressive, se non tre. Insomma, complessivamente sono numeri importanti e solo chi lo fa può averne una idea. E non solo: le più gestibili difficoltà logistiche da affrontare utilizzando un circuito chiuso lasciano intravvedere più realisticamente la possibilità di spingerci nelle nostre spedizioni verso angoli del pianeta difficilmente raggiungibili o, addirittura, remoti».
Fabio, diciamo la verità: la vita è bella, può essere intensa, travolgente, ma scorre veloce come un fiume. E’ come una corrente in piena che, sott’acqua, ci spinge da un punto all’altro e a volte neppure ce ne accorgiamo. Ma anche se abbiamo energia ed entusiasmo da vendere, gli “anta” li abbiamo superati da qualche annetto. Ed allora…prova a immaginare che, un giorno, un nipotino si sieda sulle tue gambe e, con lo stesso sguardo curioso con cui tu hai scrutato il mondo alla sua età, ti chieda di raccontargli la più bella storia di mare che hai vissuto…
«E come si fa! Non è facile tirarne fuori una sola dal cassetto, la storia “perfetta” in cui il cerchio si chiuda come fosse una favola, ma di sicuro ne ho tante da prendere in considerazione, perché in mare ci sono nato e ci ho passato tutta la mia vita. Ho visto e vissuto alcuni luoghi incantevoli, selvaggi e tra questi, negli anni ‘77-78, mi viene subito in mente il mitico Mar Rosso di Sharm, in cui non c’era niente, proprio niente, solo mare e deserto. Ci trovai, pensa, solo sette subacquei!
«Un sogno che all’epoca facevo spesso era quello di voler sapere cosa c’era oltre, al di là di una baia, di un promontorio, di un paesaggio marino. Come se stessi vivendo, in un certo senso, il tormento di Ulisse. Ancora una volta era il senso del mistero a conquistarmi. Ma se devo fare un bilancio, più ogni storia di mare che ho vissuto è stata intensa, indimenticabile, più mi garbava controllare l’avventura emotivamente. E allora la apprezzavo di più!
«Se dovessi quindi raccontare qualcosa di formativo a un nipotino, tutto questo mix di pensieri, sogni e ricordi che rappresentano il mio essere e il mio vissuto potrebbero diventare una storia di mare, un unicum che le racconti tutte assieme. Ma cercherei al contempo di far passare il messaggio che è importante vivere una storia emozionante cercando di capire a tutto tondo ciò che si sta vivendo, per apprezzare meglio e di più il dono dell’avventura, che può essere meravigliosamente bella e totalizzante».