E il Vas apparve dalla nebbia
Si tratta di una vedetta antisommergibile, varata nel 1941 da uno dei cantieri liguri, lunga 34 metri e larga 5. Dotata di bombe torpedini da getto, di apparati radiofonici e di due lanciasiluri da 450 mm, si trova adagiata nel Golfo di Genova, a 52 metri, ancora in assetto di navigazione
Di Andrea “Murdock” Alpini – fotografie di Marco Mori
Nel 1871, dalla fervida fantasia di Lewis Carroll, nasce il libro Oltre lo specchio, il mondo magico in cui si tuffò Alice attraverso la tana del Bianconiglio: la storia è nota. Purtroppo sul relitto del Vas, a Genova (47/52 metri), non possedevo la pozione magica per ridurmi di volume e passare attraverso tutte le porte e i pertugi per visitarne il suo interno, a volte angusto. Lo scafo è stato scoperto nell’agosto del 1999 da Lorenzo Del Veneziano, istruttore subacqueo e attualmente vicepresidente del Centro Sub Tigullio di Genova.
Procediamo con ordine. “Il relitto si trova a circa un miglio davanti alla Lanterna”, così comunica il nostro barcaiolo del centro sub alla Capitaneria per segnalare il punto d’immersione. La navigazione oltre la diga non è molta, una manciata di minuti e ci troviamo sul punto alla ricerca del pedagno sommerso.
Con Marco Mori abbiamo pianificato 45 minuti di fondo. Sono sceso già altre volte con aria o poco trimix e in quelle occasioni mi sono concentrato unicamente sulle parti salienti dello scafo: il tagliamare, la mitragliatrice, la bomba di profondità, il grande argano di prua. Questa volta mi addentrerò all’interno per documentarlo.
Scendiamo fino a 6 metri in un’acqua a volte dai toni blu, a volte dai toni grigiastri; controllo reciproco, in una mano tengo un elastico per fare una bocca di lupo e lasciare la mia stage ossigeno in linea, con l’altra tengo il wetnote; il piano decompressivo lo porto con me (lo lascerò saltuariamente al mio compagno di immersione prima di entrare nel relitto).
Oltre i 6 metri l’acqua è color latte e una miriade di nutrienti invadono la visuale riducendola notevolmente. Arrivano i 30 e la situazione non cambia. Mi preparo alle solite condizioni di scarsa visibilità cui sono abituato sul Vas, ma con mio grande stupore pochi metri oltre si apre il sipario di nebbia in cui ero immerso: il relitto è nelle condizioni migliori in cui lo abbia mai trovato!
Attendo Marco, nel frattempo mi concentro sul boccaporto di coperta; verso prua dove, infilando la testa, le scorse volte avevo visto sul lato di dritta, appoggiato allo scafo, un elmetto dell’esercito tedesco sopra la testiera del letto. È rimasto solo lo scheletro della branda. Sposto l’occhio sui due elementi principali che si trovano in coperta. Da un lato la mitragliatrice con il caricatore ricurvo “a banana” e dall’altro il più ambito telegrafo di macchina. Quest’ultimo, se non si conosce bene come è fatto, è ben difficile da far emergere dal tappeto di ostriche che ricoprono lo scafo. Lo indico e ne seguo la sagoma, poi con la mano lo pulisco un po’ dalla melma, così da rivelare il quadrante in vetro. Ora sì che è emozionante aver portato alla vista questo importante dettaglio.
Oltrepassiamo il cambio di quota dello scafo. In basso c’è un passo d’uomo che permette di entrare sotto coperta: ci tornerò più tardi, ora mi dirigo vergo la parte frastagliata e distrutta della poppa, che è anche la parte più fonda del relitto (a 52 metri). Aleggiano un certo alone di mistero e una coltre di sospensione.
Lo scafo scompare nel fango e si ha appena la possibilità di guardare sotto l’antenna centrale del relitto. Un grosso dentice e un paio di aragoste hanno scelto questo luogo come tana. Volgendo lo sguardo a dritta, fa bella mostra di sè la bomba di profondità. E’ sullo scivolo pronta essere lanciata; dal lato opposto restano invece solo gli scivoli vuoti e, addossata allo scafo, sotto una rete da strascico, si intravvede una grande lancia dalla sezione ovoidale.
Torno al centro dello scafo dopo aver lasciato scorrere una lunga infilata di oblò che permettevano di comunicare con il vano motore durante la navigazione. Di fronte due condotti che consentivano lo scambio d’aria e di calore tra interno ed esterno della sala macchine; sotto, il boccaporto in cui calarsi in verticale per accedere al vano motore.
Scendo piano piano all’interno a pinne pari per non alzare sospensione. L’ambiente è stretto e sporcarlo all’inizio significherebbe non vedere proprio nulla oltre che complicare sin da subito le condizioni di uscita. Appena gli occhi sono al di sotto della coperta, appare il mondo fantastico del motore e di tutte le sue componenti meccaniche ed elettriche. Si scorgono ancora i tasti del quadro elettrico, alcuni serbatoi di raccolta, i volantini sulle mandate/ritorni delle tubazioni. Poi, a un certo punto, noto due occhietti timidi e che mal sopportano la luce dei miei fari. È il piccolo grongo “Milo”, custode della sala macchine.
Appena sono fuori, scambio di ok con Marco e procediamo in direzione della sotto coperta. Vorrei provare a entrarci e arrivare fino alla prua, alle testiere del letto che ho visto dal boccaporto appena sceso sul relitto. Nonostante abbia studiato la tecnica di penetrazione per varcare questo angusto passaggio, purtroppo anche privo di stage non ce la faccio. Il bibombola che indosso è troppo grande. Ho provato almeno tre o quattro volte, piegandomi in tutti i modi, ma niente, dovrò accontentarmi di entrare solo con testa e braccia. Un grosso parallelepipedo a mo’ di “stufa” si trova sulla sinistra; poco distante una mensola con alcuni pezzi di ceramica, piccoli contenitori, qualche barattolo, ma non sono così vicino da poter identificarli con precisione. Sul lato destro appare invece uno spazio vuoto e un po’ tetro, con molti cavi che penzolano dal soffitto. Resto con l’amaro in bocca per non essere riuscito a completare questa parte di esplorazione. Tornerò con una configurazione ancor più leggera.
Abbiamo ancora qualche manciata di minuti di fondo, così ripasso su alcuni elementi che mi avevano colpito e che non avevo ben distinto in precedenza. Tra tutti emerge, sul lato di sinistra, una calotta sferica con alcune aperture che sembrano essere alloggi per la strumentazione necessaria alla navigazione.
Poche pinneggiate e raggiungiamo la cima di risalita. Non mi arrendo. Trovo un boccaporto chiuso ma rotto da un lato, infilo la torcia: lo spazio è di appena pochi centimetri. Qui si trova la scaletta che portava al gavone dove erano stivate la catena dell’ancora e altra “minuteria” marinaresca.
Il tic tac del profondimetro segna che è ora della risalire. Pochi metri e il Vas, Vedetta Anti Sommergibile, scompare nella coltre di sospensione che ora sembra proprio un fiume di latte.