Gambero di fiume: riuscirà a salvarsi?
Austropotamobius pallipes è presente nelle acque dolci italiane, però è in preoccupante declino, al punto da essere annoverato tra le specie protette. Tra le maggiori cause, la distruzione del suo habitat, l’inquinamento e la peste del gambero. Ma oggi c’è un problema in più legato alle attività umane, che ne mette a rischio l’identità genetica: l’introduzione di specie robuste e adattabili venute da lontano, come il gambero turco, che abbiamo incontrato di notte nel lago di Bracciano e il gambero rosso della Louisiana di Carlo Ravenna
In alcune realtà sociali il gambero di fiume, benché divenuto sempre più raro nelle nostre acque interne, è parte integrante di tradizioni culturali antiche e inossidabili, per lo più legate alle attività della pesca e del consumo. Basti pensare che già in epoca preistorica i gamberi d’acqua dolce erano fonte di proteine animali ed erano un alimento piuttosto apprezzato dai Romani. Fonti storiche ci raccontano che nel Medioevo gli alchimisti attribuivano a questi crostacei il segreto della trasmutazione. E volendo volare molto a ritroso nella notte dei tempi, sappiamo che in Australia frammenti del carapace di un gambero furono trovati in un pasto di 28.000 anni fa.
La sua presenza è un importante bioindicatore della buona qualità delle acque e anche dal punto di vista etologico non può che incuriosire quel potente crostaceo dalle grandi pinze, definito “l’astice d’acqua dolce”, naturalmente in miniatura. Un’importanza ecologica enorme la sua, al punto che una sparizione innaturale di questi crostacei decapodi può determinare stravolgimenti, spesso irreversibili, nelle catene trofiche. E in alcuni luoghi del pianeta dove una delle oltre 540 specie di gamberi viventi va in crisi, si parte con la consueta e inopportuna azione di traslocazione di altre specie provenienti da altri Paesi, che spesso entrano in competizione con quelle “indigene”.
Sei alieni di casa nostra
Un’osservazione superficiale delle sei specie di gamberi di fiume che possiamo incontrare nelle acque dolci italiane potrebbe portarci ad affermare che sono abbastanza somiglianti le une alle altre. Ma ci sono elementi che portano a una scrematura. Intanto, va detto che nelle tavole comparate gli elementi anatomici più importanti per distinguere una specie da un’altra riguardano soprattutto le chele e il rostro. Il colore, di cui solitamente dobbiamo fidarci poco ai fini del riconoscimento per molti animali, nel caso dei gamberi di fiume ha invece una certa importanza: il Gambero rosso della Louisiana (Procambarus clarkii) ha una colorazione peculiare, da rosso brillante a rosso scuro, ben diversa dal solito verde-marroncino delle altre specie. Il Gambero americano (Orconectes limosus) presenta tipiche bande bruno-rossastre sulla parte dorsale dell’addome. Il Gambero della California (Pacifastacus leniusculus) ha una tipica macchia bianca all’attacco del dito mobile della chela. Il Gambero di fiume europeo (Astacus astacus) ha la faccia ventrale della chela di un caratteristico colore rossastro, ed è importante aggiungere che è presente solo in alcuni areali di confine del Friuli Venezia Giulia.
Restano il Gambero di fiume (Austropotamobius pallipes), indigeno delle acque interne italiane e il Gambero turco (Astacus leptodactylus): a parte le chele più affusolate del gambero turco, il cui margine interno delle dita è più dritto rispetto a quello del gambero nostrano, l’elemento inconfondibile è il rostro; visto dall’alto, nel gambero italiano è breve e ha i bordi divergenti, nel gambero turco è allungato con i bordi quasi paralleli.
È una storia antica quella del gambero di fiume. Secondo alcune affascinanti teorie ha un antenato marino (genere Proto-astacus) risalente nell’Era paleozoica: più precisamente nel Periodo Carbonifero, tra 345 e 280 milioni di anni fa. La conquista delle acque dolci sarebbe invece avvenuta più tardi: nel Periodo Triassico dell’Era Mesozoica, da 230 a 195 milioni di anni fa.
Però, all’uomo sono bastati solo una trentina di anni per mettere a repentaglio l’esistenza del più grande crostaceo delle nostre acque dolci. D è proprio quello che sta succedendo in molti degli areali italiani, dove un tempo il gambero viveva indisturbato.
Il gambero di fiume e le sue abitudini
Austropotamobius pallipes, segnalato in rarefazione ovunque, vive in tutto il territorio nazionale, tranne in Puglia e nelle isole. Misura fino a 12 centimetri, ha abitudini notturne e si accoppia in autunno. La femmina tendenzialmente non accetta il maschio, che spesso reagisce con veemenza al “rifiuto” tentando di rovesciarla usando le poderose chele. Durante questi assalti i partner possono venire mutilati.
La schiusa delle uova che la femmina trasporta appese alle setole degli arti natatori, avviene in primavera. Una peculiarità dei gamberi di fiume consiste nel fatto che dalle uova non si liberano larve, come nella maggior parte dei crostacei decapodi, ma degli “adulti in miniatura”.
Il gambero è soggetto al cambio “d’abito” noto come muta, molto più frequente nel primo anno di vita. In genere è piuttosto sedentario. Molto di rado può capitare che questi crostacei si disperdano fuori dall’acqua lungo prati umidi, fossati e canali, purché le branchie restino umide. Attraverso questi trasferimenti, può raramente avvenire la colonizzazione di nuovi ruscelli.
Il gambero è onnivoro, prettamente zoofago. In caso di necessità non disdegna organismi vegetali e assume anche resti di animali morti. Viene cacciato dagli uccelli, tra cui gli aironi e dai pesci, come le anguille, i lucci e le trote. Ma, come detto, il suo nemico più implacabile resta l’uomo.
incontro inaspettato con il gambero turco
Quando calano le tenebre nel Lago di Bracciano, lungo il litorale sommerso di Trevignano, se la serata è buona la scheda della fotocamera si carica di scatti in pochi minuti. Lucci, carpe, tinche, pesci persico, persico sole, anguille appaiono facilmente davanti all’obiettivo. Ed ecco, d’improvviso, un gambero di fiume!
Disturbato, con movenze un po’ goffe dovute all’imbracatura della sua corazza, mostrando le sue robuste “chiavi inglesi” davanti al capo, cercava di sottrarsi al cono di luce bianca del mio faretto. Arretrava, cercando la fanghiglia e il fitto della vegetazione. Ma lo incalzavo, naturalmente ponendo la massima attenzione a non urtarlo. Scattavo varie inquadrature, fino a cercare dei dettagli degli occhi o delle chele.
Sapevo bene che una sequenza corposa di fotografie serviva sia per documentare un crostaceo che non è facile osservare dappertutto nelle acque dolci (soprattutto di questi tempi!), sia per il riconoscimento della specifica specie, che non aveva per niente l’aria di essere il classico gambero nostrano.
Nella foga dell’incontro, e di notte, non ero certamente in grado di tentare un riconoscimento all’impronta, ma furono le dita delle chele a insospettirmi: lunghe, troppo lunghe e rettilinee rispetto al “nostro” gambero.
E poi anche il tipo di habitat non collimava affatto: il gambero nostrano preferisce le acque correnti, fresche e ossigenate dei torrenti anche se, è bene puntualizzarlo, riesce ad adattarsi a vivere pure nel fango degli ambienti lacustri. Una volta arrivato al pc non fu difficile capire di cosa si trattava: il soggetto fotografato era il cosiddetto gambero turco, nome scientifico Astacus leptodactylus. Inconfondibili erano non solo le chele, ma anche la peculiare forma del rostro, completamente diverso da quello di A. pallipes, come si vede nella scheda allegata sui gamberi presenti attualmente in Italia.
È una specie molto robusta proveniente dai paesi dell’Europa orientale: Russia, Bulgaria, Turchia settentrionale, Romania. Predilige le acque a scorrimento lento come i laghi, gli stagni e i grandi fiumi, come il Don, il Volga e il Danubio. È stata introdotta in Francia, Germania e Gran Bretagna, e normalmente viene importata anche in Italia a scopi commerciali. In base a studi specifici, le popolazioni naturalizzate di questo gambero segnalate nel nostro paese sono localizzate nelle province di Bologna e di Milano, in Liguria e (guarda caso!) nel Lazio.
Il futuro non è roseo
Oggi come oggi, citare l’inquinamento delle acque e le modificazioni ambientali come alcune delle cause della rarefazione del gambero può essere intuitivo, perfino ovvio. Ma ci sono altri fattori: tra le sei specie presenti in Italia, i gamberi americani sono i responsabili della atroce peste, essendo vettori resistenti a questa infezione provocata dal fungo Aphanomyces astaci, in grado di uccidere in pochi giorni l’intera popolazione di gamberi presente in un ruscello.
Il gambero è notoriamente fotofobo, ma quando viene contaminato da questa terribile micosi esce allo scoperto in pieno giorno, addirittura risale le sponde fuori dall’acqua. Quando la malattia è in stato avanzato, poco prima della morte, l’animale cade sul dorso movendo gli arti secondo un movimento che richiama il pedalare di un ciclista.
Tre specie introdotte nelle nostre acque sono immuni da questa patologia: il Gambero rosso della Louisiana, il Gambero americano, e il Gambero della California. Quest’ultimo, oltre a essere resistente alla peste, è considerato il veicolo principale di questa malattia nelle acque europee. Il gambero di fiume e il gambero di fiume europeo sono sensibili alla peste e all’inquinamento delle acque. Quello turco è più tollerante alla scarsa qualità dell’acqua, ma come tutte le specie europee è sensibile alla peste del gambero.
Infine c’è il cosiddetto Effetto Frankenstein, eloquente definizione di alcuni autori a riguardo degli effetti negativi di specie aliene, maggiormente competitive di quelle indigene, portatrici di Aphanomyces astaci e di altri parassiti. Praticando la caccia fotografica, noto che sempre più spesso uccelli acquatici catturino nelle paludi gamberi alieni, come il rosso della Louisiana predato che vediamo nelle foto. Ci piacerebbe che posso ristabilirsi negli anni un equilibrio naturale, che attenui i guai combinati come al solito in poche manciate di anni dall’uomo, ma sappiamo che peccheremmo di una certa dose di ottimismo.