Orda Cave, nel gelo della Russia
Orda Cave è il più grande complesso di grotte di gesso al mondo. Si trova in Russia, alle pendici dei Monti Urali. Le condizioni d’immersione sono difficili, vento e neve sempre costanti, temperature dell’aria che oscillano tra i 20 e i 30 gradi sotto lo zero, mentre in grotta (nella parte aerea) la temperature è costante a meno 12. L’acqua ha una trasparenza che arriva a quaranta metri e la temperatura è costante a 5 gradi. Un team compost da 5 speleologi subacquei svizzeri, The Herd Fun Dive, insieme con il subacqueo italiano Andrea “Murdock” Alpini, hanno recentemente visitato la grotta, documentando con foto e video circa 2,5 chilometri. Il report che segue è uno stralcio del diario di viaggio scritto da Murdock.
31 gennaio. La partenza
Il meteo in Russia è piuttosto ripetitivo, inutile consultarlo più di tanto, più o meno neve più o meno freddo tutti i giorni. Quando stringi in mano il biglietto aereo capisci che sei più vicino alla partenza, quella vera. Mosca sarà tappa di scalo in attesa del volo interno per Perm, cui seguirà un bianco trasferimento verso Orda Cave. A quel punto i miei occhi vedranno il fiume Kungur gelato, fermo e placido. Fedor Dostoevskij nel 1864 scrisse il suo libro Memorie dal sottosuolo che, rileggendolo alla quotidianità, strizza proprio l’occhio alla nostra destinazione. La prima edizione italiana è del 1919, a un secolo di distanza sembra quasi essere una casualità che suona, però, come un tributo se pensato a questo viaggio: Exploro Orda Cave in collaborazione con Giò Sub e Lts. La seconda parte del libro si intitola “A proposito della neve bagnata” e lì lo scrittore russo tra le sue pagine scrive “Io sono solo, e loro invece sono tutti”, ambivalente ed elegante per chi si appresta a visitare la più grande grotta al mondo di gesso.
4 febbraio. Il sapore del gesso
L’ultima immersione è quella che lascia il gusto del viaggio. A volte scegliere diventa difficile e si rischia di farsi sopraffare dalla bulimia subacquea. Oggi per noi è stata la quinta immersione ad Orda Cave. Il mattino abbiamo girato per il ramo occidentale del sifone, mentre il pomeriggio, dopo aver ripulito i circuiti lasciati nei giorni scorsi, ci siamo dedicati a visitare la parte orientale della grotta. In questo caso dall’ingresso abbiamo percorso tutta la prima camera che attraverso una pietraia conduce a un primo grande lago. Da qui è necessario creare un jump verso la linea che ci avrebbe condotto all’interno del ramo est. Questa parte di esplorazione parte da circa 200 metri dall’ingresso e si estende per oltre 400, per una lunghezza totale di circa 600 metri, alla profondità costante di 15 metri. La Prospettiva Nevskij è la più grande e suggestive arteria di San Pietroburgo. La strada è conosciuta per l’eleganza degli edifici che vi si affacciano oltre che per la qualità degli incontri letterari che sono stati descritti dai noti autori russi del passato. Il ramo che ci stiamo accingendo ad osservare, può essere paragonato per bellezza, lunghezza e particolarità alla via pietroburghese. L’apertura del tunnel è ampia. Si tratta di un portale a tutti gli effetti per maestosità e definizione delle proporzioni della roccia. Il fondale è limaccioso, lunare, composto di doline che celano buchi neri entro cui la luce si perde. Dall’alto scendono grandi blocchi di gesso squadrati. Intagliati e incastonati a comporre rilievi geometrici che si contrappongono per forza e linearità al moto ondulatorio del piano inferiore. Talvolta le bolle causano il distacco di particelle che come scaglie ondeggiano fluttuanti verso il basso. In alcuni passaggi poco battuti il distacco è tale che l’acqua cristallina sembra essere stata mitigata con il latte. Le pareti perimetrali di questo ramo sono nette, geometriche. Il passaggio è molto ampio, almeno una decina di metri, mentre l’altezza interna varia a seconda delle sezioni ma restando costante sulla media di circa quattro metri. Saltuariamente si incontrano massi distaccatisi dal soffitto che si sono coricati a terra creando delle quinte sceniche molto suggestive. Quarantacinque minuti dopo aver imboccato il ramo, arriviamo al termine dello stesso. In cima alla linea si trova sulla destra un rocchetto di dimensioni ragguardevoli, che è stato lasciato da coloro che per primi hanno esplorato la grotta. Questo sguardo sul passato è significativo ed emotivo allo stesso tempo. Marker, spool, jump e riprendiamo una nuova linea che ci permette di risalire fino a quota zero, all’interno di una bolla d’aria (respirabile) che sovrasta un piccolo specchio d’acqua. Aspettiamo l’altra metà del nostro team, visualizziamo il percorso fatto e quel che manca e poi di nuovo pollice verso: giù. Si disfa un jump, si torna alla linea principale del ramo e si fa un nuovo jump che porta dritto alla parete di fondo di uno spazio semi sferico. La roccia sembra compatta, eppure vedo scomparire un paio di pinne al di là della parete. Una fessura diagonale inclinata a trenta gradi con asse longitudinale nord/est – sud/ovest. Meravigliosa. Si passa da uno spazio relativamente ampio a un passaggio un po’ più tecnico e molto suggestivo. Le spalle di un subacqueo passano mentre le braccia aperte con i fari video no; girati anche loro nel senso della spaccatura e tutto torna a funzionare. Il passaggio è lungo non più di una decina metri. Quando arrivi alla fine sotto a sinistra gli occhi colgono una gola aperta pronta ad accoglierci. L’acqua è così trasparente che sembra irreale. L’altezza non supera il metro e venti, la larghezza i quattro metri. Eppure è tutto così bianco e candido. Due ambienti uncinati e concatenati tra di loro formano piccoli spazi che sembrano essere cappelle radiali di un abside gotico. Resto sempre più convinto che sacralità e monumentalità siano due elementi che contraddistinguono e determinano il carattere di questa grotta: “Quando le cattedrali erano bianche”. Ultimo giro di walzer, sguardi incrociati all’unisono. È l’ora di tornare e ripercorrere i 600 metri che ci separano dall’ingresso. Ho trascorso tutto il rientro ripensando a quel che ho visto in questi giorni, al freddo che mi aspetterà una volta uscito dall’acqua, alla muta e ai moschettoni ghiacciati. Poi ci saranno le interminabili scalinate che si devono percorrere con le sacche speleo in spalla per rientrare alla base. Quest’ultime ti spezzano il fiato quando hai il cappuccio bagnato e il vento ti soffia in faccia la neve a oltre venti gradi sotto lo zero. Mi fermo un paio di volte perché sono troppo stanco, devo recuperare il ritmo respiratorio e abbassare la frequenza cardiaca altrimenti lo sforzo è molto e i risultati pochi. Sono passati meno di dieci minuti da quando ho lasciato la superficie del pozzo, eppure qui fuori la muta è praticamente gelata. Il neoprene si sta indurendo sempre di più e limita i movimenti. Meglio riprendere il passo dopo pochi istanti, altrimenti la situazione non può che peggiorare. È l’ultima volta che posso guardare il fiume gelato e la steppa al di là dell’argine, poi da domani si torna alla realtà. Anche il vento fa il suo giro in un carosello che porta con sé il rumore della canne sbattute e quello di una slitta trascinata da un pescatore solitario.
Un passo, e poi un altro passo, poi un altro ancora…