SS Marsala, il piroscafo dei due mondi
Glasgow, Scozia, cantieri navali Alexander Stephen & Son. Il 5 marzo 1882 avviene il varo dell’ SS Marsala, “steam ship” adibita al trasporto persone oltre oceano. L’ armatore è la compagnia tedesca Australia- Sloman Line A.G. che costituisce una flotta commerciale per Australia-Nuova Zelanda. L’ SS Marsala è impiegato su questa rotta con scalo a Cape Town e destinazione Melbourne, Adelaide, Sidney o nelle principali città delle Indie Occidentali. Il piroscafo era adibito al trasporto di bestiame e merci refrigerate, grazie anche alla sua preziosa stiva prodiera in grado di ospitare fino a mille tonnellate di merci congelate. L’ equipaggio era costituito da 35 membri e poteva ospitare fino a 600 passeggeri emigranti in terza classe. Pochi anni dopo il varo, nel 1886, la nave passa alla compagnia Union Line che la impiega per le
attraversate oceaniche verso New York. La flotta, tutta varata dal medesimo cantiere, è composta da imbarcazioni con un doppio sistema propulsivo misto: vapore e vela. Il vapore permette di navigare più velocemente verso la matta, ma il carbone da stivare per le lunghe traversate è assai ingombrante, inoltre un guasto alla macchina significa restare il balia delle onde, dato che ancora
non esiste la radio di bordo. Il vento è lento ma sicuro e permette di continuare il viaggio in caso di avaria. L’ SS Marsala è costruito sulla base del Sorrento (1881), poi affondato in Spagna nei pressi di Capo Finisterre, il Catania I (1881) poi affondato nei presi di New Orleans e l’Amalfi (1881) ribattezzato Ada dagli svedesi, poi affondato nel 1917 per siluramento da parte di un sottomarino tedesco. Anche il piroscafo Taormina (1884) è del tutto comparabile alla nostra nave.
Il Marsala aveva due alberi velici, di cui quello di trinchetto con tre pennoni per altrettante vele. La struttura della nave è mista, legno e ferro. La macchina a vapore è una tradizionale, per l’ epoca, a triplice espansione con una sola elica propulsiva. Complessivamente il piroscafo aveva dimensioni di 97m di lunghezza per 11m di larghezza e circa 6m di altezza. Il viaggio inaugurale Amburgo/New York è del 9 febbraio 1886 e continuerà a esercitare su questa rotta fino al 10 luglio 1897. Negli anni di servizio il Marsala compì complessivamente 34 attraversate transoceaniche portanti verso il Nuovo Mondo quasi 8.000 passeggeri. Tra il 1897 e il 1911 il Marsala cambia vocazione e da nave passeggeri diventa una nave merci oceanica, destino che continuerà anche nel passaggio di proprietà con la compagnia genovese Beraiso & Devoto, che la terrà nella propria flotta per due anni impiegandola però nel Mediterraneo. Negli ultimi mesi del 1911 il Marsala è requisito dalla Regia Marina italiana che lo impiega come nave ausiliaria per il trasporto di truppe e materiali nella guerra italo-turca verso le terre libiche e tunisine. Al termine del conflitto la nave torna agli armatori genovesi che la impiegano nuovamente per il trasporto commerciale.
Il mattino del 2 luglio 1913 l’ SS Marsala è in navigazione da Sfax (Tunisia) verso Santa Liberata, ma sulla sua rotta incrocia la nave Campidano che, a causa della fitta nebbia, non lo avvista e lo sperona all’ altezza della prua. Il piroscafo affonda in circa 10 minuti, giusto il tempo necessario per permettere a tutto l’ equipaggio di mettersi in salvo. Il piroscafo SS Marsala da allora giace vicino alla costa di Giannutri su un fondale di -105m, tanti quanti sono gli anni che intercorrono a oggi con la data del suo inabissamento.
L’ acqua è appena increspata quando arriviamo al largo dell’ isola dove svolgeremo l’ immersione. Il vento soffia teso e crea un’intensa corrente di superficie che infastidisce un po’ le operazioni di aggancio stage e soprattutto allunga il raggiungimento della linea di discesa. Attendo qualche minuto i membri del mio team, nel frattempo ne approfitto per normalizzare la respirazione e controllare i vari moschettoni. Chiudo il gruppo in discesa. A quota -30m mi accorgo che è già passato 1 minuto: sono leggermente in ritardo su quanto avevo stimato, purtroppo la corrente taglia l’ acqua fino a questa profondità. Continuo a scendere e penso che, se in risalita sarà ancora presente,
potrebbe rendere difficoltosa la decompressione nelle ultime lente tappe. A -60m la tonalità del blu cambia e con essa anche la temperatura che si abbassa bruscamente. Arrivo sul fondo con oltre 1 minuto di ritardo. Fisso la strobo e due stage alla linea, prendo il punto bussola. Murata a sinistra, cassero alla mia destra, poco oltre dei vani che scompaiono nella visibilità fioca, corrente assente. Attraversiamo come da pianificazione la coperta in senso trasversale, nel mentre accendo i fari e sotto i miei occhi compaiono tre aragoste di dimensione davvero ragguardevole. Il ponte di coperta si trova a una profondità che oscilla tra i -96m e i -98m, metto la battagliola di dritta alla mia sinistra e procediamo verso poppa. Questo segmento del relitto è il meno esplorato, quello meno noto e descritto da chi già è sceso negli anni passati sull’ SS Marsala.
La ricerca storica e le comparazioni svolte nelle settimane precedenti con le “navi gemelle” varate dallo stesso cantiere si rivela assai utile, una volta sul fondo, per comprendere la conformazione della nave che sto osservando. La murata scorre pinneggiata dopo pinneggiata in modo lento. A centro nave compare un nugolo di argani proprio in prossimità di quello che fu il massiccio albero velico. Sono possenti, rigidi, e ancora si può percepire la trazione delle cime che avvolgevano per tendere le vele. Una batteria di aperture cadenza il ponte, ciascuna conduce in luoghi meravigliosi sotto coperta. Il tek, che una era calpestato da marinai e migratori, oggi è pressoché scomparso totalmente, inghiottito dalla salsedine. Il legno ha lasciato un vuoto che permette di vedere chiaramente la struttura in ghisa della nave, tutte le travi organizzate secondo trama e ordito sono rivettate tra di loro. Il pensiero, seppur fugace, vola in Scozia, terra i cui uomini in kilt hanno forgiato il ferro di questa imbarcazione. Molta è la fauna che punteggia lo scafo, tra cui un granchio facchino che si fa carico di una spugna
gialla sul proprio carapace per meglio mimetizzarsi. Improvvisamente la nave si apre in due. La situazione potrebbe essere simile a quella prodiera, invece siamo esattamente al lato opposto. Il ponte di coperta si inarca a 90 gradi verso l’ alto gettando su di noi uN’ombra densa. Questo repentino cambiamento impone una revisione della navigazione e dei riferimenti tanto che non si scorge la continuità dello scafo. Tengo la sinistra, mi muovo cautamente all’esterno del Marsala. Un’apertura ampia e a forma di V rovesciata invita a entrare dentro la nave. Declino l’invito e proseguo verso alcuni pezzi di lamiera che ho intravisto. Stiamo approcciando quello che fu lo specchio di poppa, oggi completamente distrutto, deflagrato. Probabilmente inabissandosi la nave si è schiacciata in questa porzione e, per l’ urto, distrutta. Un
pezzo di battagliola di forma circolare e con ancora il corrimano riposa sul fondale. La forma è ben riconoscibile e segue esattamente la forma della linea semicircolare della poppa. Sul fondo si trovano molti reperti che mi incuriosiscono. Purtroppo non posso soffermarmi più di qualche minuto. Vorrei esplorare altre parti più corpose della nave, ma mi trovo nel punto più lontano dalla linea di risalita, è quindi doveroso monitorare costantemente tempo e consumi anche perché tutta questa parte di relitto si trova alla batimetrica di -106m.
Murata a sinistra, si inverte la direzione, inizia il ritorno. Alcune travi si ergono a mezz’ acqua, la visibilità di 5/6m aiuta a riconoscere bene gli elementi che si osservano ma, al contempo, anche a celarne delle parti infittendone l’ aura di mistero. Un piccolo argano e un moncone circolare cavo conducono il mio sguardo all’esterno della sagomo del relitto. Si vede ora nettamente una porzione di un paranco del cala scialuppa. D’improvviso appare la testa del grongo più grande che abbia mai visto. L’impatto è emotivamente forte anche perché grigio appare dal limo, nascosto all’ombra di due lamiere avvolte nel buio dei -100m. Lo fisso, lui fissa me. Avrebbe potuto essere un incontro uscito dalla fantasia di Sergio Leone. Il grongo ha l’occhio sinistro completamente bianco, forse è stato ferito ma di certo è cieco da questo bulbo. L’altro occhio, di dimensioni più modeste è intonato al colore della sua “pelle”.
Abbasso i fari per non infastidirlo troppo. Mi coglie sul fatto, rientra di 20/30cm nella tana per caricarsi e poi esce come un siluro verso di me, mi attacca innocuamente, ha l’ animo gentile dopo tutto. Si rintana e io proseguo tenendo il centro nave. Ho visto un’apertura molto interessante. Il profilo è rettangolare, un predellino in legno modanato corre lungo tutto il perimetro all’altezza di un passo dal piano di coperta. Getto lo sguardo all’interno e vi trovo le ultime marmitte delle caldaie; poco oltre, sul fondo a -103m si vede il grosso tubo che corre longitudinale allo scafo: si tratta del vano che porge l’albero di trasmissione.
Il compagno di team richiama la mia attenzione con la torcia. Ha trovato, coricato su se stesso, l’intero albero poppiero. Ha un diametro alla base di circa 80 cm, almeno così stimo a occhio proporzionandolo con l’attrezzatura che indosso. Non molto distante si trova il moncone dove si innestava l’albero fino alla base dello scafo. L’impatto con il fondale lo ha spezzato di netto, lasciando le bordature ritorte come riccioli di burro. Mancano ormai 10 minuti di fondo. Lascio la murata di sinistra per esplorare il centro nave. La prima stiva in cui entro è la sala che accoglie i serbatoi caldaie i cui cilindri invadono lo spazio. Qui si passa dai 98 metri della coperta sino ai 104 dell’interno; in realtà si potrebbe scendere ulteriormente, ma il fondo è ricolmo di detriti e lamiere accartocciate. Ogni tanto si intravvedono delle scalette e alcuni passi d’uomo. Chissà dove conducevano; attualmente la via è serrata. Recupero quota, un paio di pinneggiate e mi porto nel vano quasi adiacente alla plancia. Qui si apre una stanza delle meraviglie. Ho solo 2 minuti per esplorarla, poi il tic tac del profondimetro batte i
30 minuti, anche questa volta. Due forni con quattro fuochi ciascuno, uno di fianco all’altro. Si vedono ancora gli invasi per il carbone caldo da mettere al di sotto del pentolame, mentre alla base di ciascun blocco una piccola porticina, al cui interno era riposta la carbonella utilizzata per mantenere in temperatura le cotture. Un piatto giace inclinato ricoperto di limo, poco oltre si vede il collo di una bottiglia o di un recipiente ceramico. L’incanto non finisce. Subito dopo, a destra, il lavatoio con ancora i paioli in rame riposti uno sopra l’altro. Sul pavimento, nella coltre limacciosa fanno capolino altre stoviglie. Non tocco nulla, non mi sfiora nemmeno l’idea, lascio il paesaggio così come l’ho trovato, lo gusto nella visibilità cristallina dei 102 metri. Una luce azzurra proviene dall’incrocio a T a destra delle cucine. Sarebbe
bello continuare, ma è impossibile, anzi manca un minuto e mezzo alla risalita, non posso fermarmi ancora. Lascio scorrere la linea sotto di me. I deep stop profondi iniziano placidamente a trasportarmi in un’atmosfera di concentrazione che sposta ora la mia attenzione dal relitto al monitoraggio delle sensazioni psicofisiche che mi accompagneranno lungo tutta la risalita. Arrivo ai 66 metri e tre dentici enormi salgono dal blu notte che avvolge il Marsala. Due viaggiano in coppia, uno più esterno fa da sentinella. La pausa di silenzio tra un’inspirazione e una lenta espirazione mi mette per un attimo in sintonia con loro. Vedo che si scambiano degli sguardi, sono in caccia, hanno scambiato il mio luccichio per una preda. Quando sono abbastanza vicini per capire che non sarò il loro prossimo pasto, con un colpo caudale tornano negli abissi da cui erano emersi pochi secondi prima. Giannutri compare ai miei occhi 3 ore e un minuto dopo l’inizio dell’immersione. Esco accolto dagli sguardi luccicanti del mio team, una giornata memorabile. Inedita.
Andrea “Murdock” Alpini