Viminale: tra bielle e pistoni
Giace al largo di Palmi, in Calabria ed è una delle navi più famose affondate nel Tirreno. Un’immersione impegnativa, sul filo dei 100 metri, per esplorare la sala macchina e le tante testimonianze del passato… di Andrea “Murdock” Alpini – foto di Marco Mori
Conoscere un relitto è un privilegio che spetta a pochi. Spesso si ha solo la possibilità di assaggiarne una porzione, di goderne una piccola parte. Non importa quanto grande sia effettivamente una nave o un’imbarcazione per poter affermare di conoscerla, subacqueamente parlando.
Lo scopo per cui mi sono sceso sulla Motonave Viminale, al largo di Palmi, in Calabria, era esclusivamente quello di poter gustare lo stile intramontabile di un’epoca fatta di bombette e cilindri in testa che si accompagnava a raffiche di mitra. La Viminale è stata la nave civile italiana, riconvertita a uso militare, simbolo per antonomasia del Ventennio. Non posso certamente dire di averla conosciuta al termine delle immersioni svolte, ho però cercato di mantenere un metodo quanto più analitico possibile per apprezzarla appieno da prua a poppa.
Talvolta le condizioni stesse in cui giacciono i relitti impongono al subacqueo il difficile compito di interpretare quel che l’occhio vede. Sembra di essere nella tela di un pittore cubista che legge l’oggetto girandovi tutt’attorno contemporaneamente. Il risultato è la descrizione della realtà per frammenti accostati, che solo nella summa della loro interezza rappresentano l’oggetto osservato per ciò che è, e non per ciò che appare.
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Conoscere se stessi è davvero difficile, ma è la più grande ricchezza che si possa avere: una cima decompressiva, a volte, può essere un’eccellente chiave interpretativa. Il lungo tempo trascorso a fissare le trame del cotone che ricoprono i legnoli della treccia, metro dopo metro, ti induce a una corposa introspezione. Lo svantaggioso rapporto tempo di fondo/deco cui si sottopongono tutti gli amanti dei relitti profondi, è un elemento con cui si deve convivere, o da cui si rimane folgorati. L’acqua tutt’attorno, il silenzio rotto dal tintinnio di un moschettone, gli occhi del compagno che incontri durante la comunicazione, le tonalità esterne che variano al cambio di quota… più luce, meno luce, leggera corrente, niente nel tutto.
Ascolto il corpo muto. I suoi segnali, quando si manifestano, sono netti e chiari. È intransigente – non è un dialogo – impartisce ordini e scansiona il ritmo, decide il tempo di risalita. “Ma l’animale che mi porto dentro non si arrende mai e non sa attendere”.
Tre minuti dopo siamo circa a 90 metri. Talvolta penso di avere gli occhi lenti nell’adattarsi alla luce del fondo che batte sul relitto. Mentre scendo ed effettuo il cambio gas a 54 metri, l’acqua diviene più fredda e scura. Altri 20 metri più sotto s’inizia a intravvedere la grande massa nera della Motonave Viminale.
Il nostro pedagno, ben fissato nell’immersione precedente, ci permette di arrivare in corrispondenza della copertura del ponte di comando. Le gru cala scialuppe si protendono verso l’esterno, mentre le strutture sottostanti sono per la maggior parte crollate o implose. Il tetto dell’ultimo ponte a tratti si presenta accartocciato su se stesso, tanto da non permetterne la penetrazione. Il soffitto coincide con la pavimentazione.
Alcune maniche a vento giacciono coricate di lato con la loro ampia apertura rivolta verso la superficie, altre invece sono girate sottosopra e si riconoscono dal resto unicamente per la rotondità della loro forma. È almeno la terza volta che torno in questa porzione di Viminale per godermi il paesaggio architettonico navale. Dopotutto è ricco di elementi che, persa la loro funzione, raccontano storie nuove. Qui il rapporto tempo di fondo/decompressione è meno inclemente che altrove. Un valido motivo per trascorrere alcuni minuti in più sul relitto.
Al centro della copertura si trova un graticcio di travi che congiungono le due estremità longitudinali di un ampio cavedio che conduce all’interno della nave. Ho appena il tempo di girare i fari verso l’alto per riprendere il team che sta scendendo, quando gli occhi scorgono la densa nebbia giallo-verde che, dal basso delle stive, sale verso di noi. Ancora tre metri giù e la cognizione dello spazio manca del tutto.
Limito gli spostamenti a pochi metri oltre, nei diversi corridoi che si affacciano sul cavedio. A 102 metri segnalo che inizio a risalire e uscire da quest’ambiente poco gradevole. Tornato in acque libere procedo verso poppa, sempre in quota.
Trascorriamo alcuni minuti a scattare fotografie e riprese video a porzioni di relitto che si stagliano nel blu di fondo. Poi, i miei occhi si posano su quel “piccolo” antro in corrispondenza della murata di dritta. Le sue dimensioni sono circa 2 metri per 2, quindi proprio piccolo non è, tuttavia è il rapporto con il resto dello scafo che lo fa sembrare minuscolo.
Dentro l’acqua dentro è cristallina. Solo puntando i fari sulla verticale si riesce a vedere per almeno 15 metri. Continuo a filmare mentre mi volto e segnalo ai miei compagni la volontà di scendere. Entro. Lo spazio ai lati è punteggiato da una schiera di ferri orientati verso il basso. Ne tocco uno per capirne la consistenza. L’estremità che fluttua verso il basso è acuminata e tagliente, penso immediatamente che bisognerà stare attenti sulla via del ritorno. Dentro il ferro si è ossidato sulle tonalità del verde. Ci sono cromie suggestive e mai monotone.
Scendendo ci s’imbatte in una trave trasversale sulla cui sommità si trova appoggiato un albero a gomito. Ci siamo. L’ambita sala macchine si trova a pochi metri. Gli occhi ridono, avidi di conoscere.
Due pistoni di rispetto sono poggiati di fronte a me. Tutto intorno la meravigliosa giostra di bilancieri, alza valvole e rampe di scale che divengono reticoli. Scorgo alcune lampade che, flebili, sfidano la gravità a mezz’acqua, altre hanno ceduto alla corrosione e giacciono sul fondo.
L’acqua è chiara. La vista può spaziare oltre la portata dei fari. L’ambiente ha un’altezza contenuta, in ogni caso ci si riesce a muovere senza problemi. La calma è d’obbligo. Siamo ospiti inattesi da queste parti…
Il limo presente non è così marcato come da altre parti del relitto; lo spessore è contenuto. I corrimano segnano i percorsi interni, come un dedalo. Rampe di scale collegano spazi su più livelli. Capita che la vista termini con una fitta maglia metallica che separa il corridoio dall’ambiente limitrofo. La sala macchine della Motonave Viminale ha carattere d’altri tempi, si notano i dettagli delle manifatture, oltre che le tipologie di parti meccaniche.
Arrivo fino a 106 metri. Sotto ci sarebbe almeno un altro piano intero da perlustrare, dopo di che resta solamente la parte conclusiva della chiglia in parte insabbiata. Risalendo di quota, a metà del cavedio della sala macchine, ecco un’apertura netta e lineare che sfonda su uno spazio ampio. Si tratta della sala da musica. Stralci d’azzurro compaiono oltre le finestrature. Sarebbe bello iniziare una nuova immersione, da qui in avanti. Bisognerà tornare nuovamente.
È ormai tempo di tornare. Stacco al ventinovesimo minuto di fondo. 160 minuti di respiri e pensieri, lungo una cima ad ascoltarsi, passano piuttosto velocemente. A un certo punto della decompressione, il silenzio del Tirreno è rotto dal solenoide del Ccr del mio compagno. È 3 metri più in alto di me. Conoscere se stessi passa anche attraverso l’ascolto di ciò che momentaneamente non si vede.
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Quando sono a 48 metri mi restano ancora poco più di 200 minuti di decompressione. Oggi è stata davvero un’immersione da ricordare. Ammetto che il collo alle mie bottiglie S80 l’ho tirato per davvero. Un piano decompressivo impegnativo e una qualità di tempo trascorso sul fondo davvero piacevole.
Il transatlantico italiano ha risucchiato tutte le nostre energie. Il nostro corpo morto è sceso verticalmente sul cassero di centro nave in pochi istanti, trascinando con sé i 110 metri di cima. Vedere la boa galleggiare in superficie trasmette sempre quel pizzico di magia che precede l’inizio di una nuova avventura.
Il primo team è pronto. Entrano in acqua ai lati opposti della barca di supporto. Una volta che loro sono sulla verticale, inizia la vestizione mia e di Marco Mori. Qualche minuto più tardi e siamo sul fondo. Realmente quasi sul fondo, mancano 10 metri ai 107. Vedo la cima scendere in bando, poi una sagola sottile che risale. Di colpo una luce almeno 7 od 8 metri sopra di me. Tengo la cima principale tra le mani e la porto in corrispondenza della sommità del relitto. Un paio di nodi del barcaiolo a un pezzo di ferro, dopo aver verificato la sua integrità, a seguire elastico e luce stroboscopica. Il punto di rientro e la linea di risalita sono ora messe bene in evidenza. Sotto di me scattano i flash all’altezza del secondo ponte della promenade.
Poche pinneggiate e arrivo alla chiesuola della bussola di dritta del ponte di comando. I riferimenti presi nelle passate immersioni aiutano molto in questa occasione. Intercetto sul ponte di coperta la coppia del primo team che mi chiede conferma della direzione della prua, l’obiettivo di oggi.
La visibilità è buona ma inferiore rispetto ad altre occasioni. La corrente, non forte ma presente, spinge da sud-ovest, montante dallo Stretto. Oggi cambierà direzione e intensità più volte anche in decompressione.
Scorrono le stive di centro nave, poi la coperta di prua con il suo cambio di quota. Gli argani salpa ancore, quel che resta del bigo di carico, le grandi bitte. Già le bitte, come mio solito, non riesco a non guardarle. Mi piace immaginare il diametro delle cime che, intrise di sale, vi scivolavano o scricchiolavano avvinghiate al ferro. L’archetto muto della campana: il taglia mare. Pausa. Vuoto. Mare.
Scendo di quota. Appoggio lo sguardo sull’ancora di dritta. Oltre il filo della murata compare il mio compagno d’immersione avvolto nei suoi pensieri. Mi sposto sulla murata di sinistra e passo alcuni minuti di fronte all’altra ancora. Solida, possente, elegante.
Un paio di respiri per tornare agli argani di prua. Scambio reciproco di ok a scendere e giù verso gli alloggi dell’equipaggio. Le grate corrose sembrano immortali. Gli spazi dietro di esse permettono di muoversi con cautela e con agio nonostante il mio ingombro voluminoso. Spazio su entrambe le murate focalizzandomi sugli oblò in ottone. Alcuni sono chiusi, altri invece aperti, in piena notte, quell’istante prima dell’inabissamento.
Scendiamo ancora di un livello, arriviamo a 104 metri. L’acqua è torbida, limacciosa, a tratti aleggiano strisciate di nebbia. Percorro i corridoi interni: la coltre di fango ha sommerso molto di ciò che popola il fondo. Alcune paratie sono crollate, così come parte della struttura. Il “vecchio gigante” porta i segni della storia e del tempo. Qua e là spuntano i resti di alcune testiere delle brandine occupate dai marinai prima e dai soldati poi.
Prima di uscire torno alle cuccette del piano superiore. Il soffione di due docce tocca quasi il soffitto, quel che una volta era il divisorio ora è una tremula paretina di poco spessore.
Tornati al piano di coperta di prua procediamo sulla mezzeria della nave. Scendiamo nuovamente, ci attendono le stive di carico. Procediamo in direzione poppa, così da emergere dinanzi del cassero. Perlustriamo due dei tre livelli interni. L’ultimo è davvero nebbioso, lo tralasciamo. Diverse calottine e una schiera di volantini per aprire o chiudere i flussi delle condotte degli impianti nella Viminale costellano il livello intermedio delle grandi stive centrali.
Il tempo richiama all’ordine, il runtime cresce. Spenta la strobo, richiusi i fari, resta la tonalità blu oltre mare del Tirreno che ricopre la Motonave.
Fino a 80 metri si vedono ancora distintamente le sagome delle maniche a vento coricate sul cassero, poi arriva un colpo di corrente che mescola e densifica l’acqua. Il transatlantico scompare e iniziano i pensieri decompressivi, “a momentary lapse of reason” suona nelle mie orecchie fino al successivo cambio stage.